UN LIBRO, UNA STORIA: Recensioni, commenti, eventi e curiosità

sabato 28 dicembre 2013

La Dea dell’Alpe

Ovvero una improbabile “Santa Margherita” 

• La “Canzun da Sontga Margriata” è una delle più suggestive testimonianze della cultura alpina pre-cristiana: un testo nell’arcaica lingua della Surselva, tramandato su una melodia salmodiante d’altri tempi, che giunge fino a noi portandoci la voce della Dea primordiale della fertilità, colei che sovrintende al ciclo della vita e della morte. Il nostro Peter Stauber conosce questo canto (Cap. VI), poiché sua madre era di lingua romancia: ed è plausibile che all’epoca esso fosse largamente noto, se fino alla metà del sec. XIX veniva ancora cantato dalle contadine engadinesi durante il lavoro dei campi. Così afferma Christian Caminada, l’erudito che lo raccolse nel 1931 dalla voce di Catarina Gartmann-Casanova di Pruastg. Un caso singolare, anzi un vero miracolo, poiché costui era il vescovo cattolico di Coira: un altro al posto suo l’avrebbe certamente condannato e proibito severamente, per manifesto “paganesimo”. Ma si trattava anche di un importante documento della lingua romancia, forse il più antico...
Per accostarsi ad esso suggerisco innanzitutto di ascoltare Corin Curschellas, l’artista che lo fa rivivere in veste moderna, ma con la stessa intensità di una vestale antica.


Sontga Margriata ei stada siat stads ad alp,

Mai quendisch dis meins.

In di eis ella ida dal stavel giu,

Dada giu sin ina nauscha platta,
Ch’igl ei scurclau siu bi sein alv.

Paster petschen ha quei ad aguri cattau.

«Quei sto nies signun ir a saver,

Tgeinina zezna purschala nus havein.»




Traduzione:
Santa Margherita stette sull’Alpe / per sette estati, meno quindici giorni. / Un giorno scendeva dal pascolo, / scivolò su una pietra cattiva e cadendo / scoperse il suo bel seno bianco. / Il giovane aiuto-pastore se ne accorse: / “Il malgaro deve pur sapere / che razza di pastora giovinetta abbiamo qui” (...)

Corin Curschellas ne canta solo alcune strofe, ma potete trovare nel web il testo integrale con la versione tedesca a fronte:
http://de.wikipedia.org/wiki/Canzun_de_Sontga_Margriata

La storia si conclude in questo modo: la giovinetta (nel testo purschala sta proprio per "pulzella") chiese al piccolo pastore di mantenere il segreto, promettendogli una serie di doni straordinari, ma inutilmente, così alla fine presa dall’ira lo fece sprofondare sottoterra e se ne andò lontano maledicendo l’alpeggio che essa aveva fatto rifiorire: da allora i rigogliosi pascoli si seccarono e persino le sorgenti furono prosciugate.

Anche nelle Dolomiti si racconta di pascoli trasformati in sterili pietraie, ma per opera del Salvan, signore dell’alpe; questi prima rivela agli uomini i segreti della caseificazione, poi ne viene malamente scacciato, perché quegli ingrati vogliono impadronirsi degli alpeggi. Questo Peter Stauber lo sa, e non può fare a meno di associare le due leggende, intuendo che in entrambi i casi si ha a che fare con antiche divinità benefiche della fertilità, offese e ripudiate.
Nel romanzo non si dice di più, ma scorrete il testo della cantica grigionese: quali sono i doni che la Santa giovinetta promette al malcapitato pastorello? passi per le tre camicie che più le sporchi e più bianche diventano, ma poi si tratta di “tre belle pecore, che puoi tosare tre volte l’anno”, quindi “tre belle mucche, che puoi mungere tre volte al giorno”, poi “un bel prato recintato, dove puoi falciare tre volte l’anno”, ottenendo ogni volta lana, latte e fieno in grande quantità. Ma non basta: alla fine la Santa promette in dono “un mulino che di giorno macina segale e di notte frumento, senza doverci mai mettere nulla”. Non sono questi i doni dell’abbondanza, i “doni delle vivane” di cui parlano le leggende fassane? E non è forse prosperità, salute e amore ciò che portano agli uomini le Tre Vergini di Maranza?

E Santa Margherita, vergine e martire d’Antiochia, cosa c’entra? Lo vedremo la prossima volta: scopriremo altre connessioni interessanti, confrontando in particolare la “Canzun da Sontga Margriata” con il racconto fassano de “La Vivana scacciata” (De Rossi, 1984). 

Intanto vi segnalo il bel saggio di Karen P. Smith, Serpent-damsels and Dragon-slayers: overlapping Divinities in a medieval Tradition, 2006 (che potete leggere anche sul web) e vedrete presto la nostra Santa giovinetta farsi letteralmente in Tre... 

domenica 22 dicembre 2013

Triadi divine e divinità triformi

Potenza del numero Tre, e non solo...

• L'immagine delle Tre Sante Vergini di Maranza, in particolare quella assai poco ortodossa riprodotta in copertina e commentata più volte su queste pagine, viene associata dagli studiosi alla figura delle "Tres Matres" della tradizione pre-cristiana. Che si tratti di una triade di divinità femminili, ovvero di una rappresentazione della natura ciclica del mondo articolata in tre fasi (nascita - maturità - morte) e conseguente "eterno ritorno", sta di fatto che nell'antichità tale nozione si concretizza nella figura di Ecate triforme, di cui vediamo qui sotto una bella interpretazione moderna dell'artista fiemmese Mariano Vasselai, creata appositamente per "I Misteri del Cjaslir".

Dea lunare e ctonia al tempo stesso, essa viene rappresentata talvolta come figura tricefala, talvolta come unione di tre figure femminili nelle tre fasi della vita (vergine - madre - anziana), non di rado invece come semplice triade di donne eternamente giovani: insomma come le nostre Tre Sante Vergini. Quali che siano le complesse relazioni che connettono Ecate alle varie divinità dell'Olimpo greco-romano, vi si riconosce un'eco della dea primordiale chiamata Mater Matuta, o Bona Dea, dispensatrice e garante della fertilità del suolo e degli esseri viventi.



Come tutti sanno, rappresentazioni triadiche analoghe (per lo più femminili, ma non necessariamente) figurano in molte religioni antiche, dall'Oriente alle Civiltà pre-colombiane, non è il caso di insistere. Vorrei qui invece ricordare la presenza di una divinità maschile polimorfa nella cultura europea arcaica, propria delle popolazioni slave dell'Est europeo: si tratta di Swiatowid (o Svetovit) venerato in Polonia e nei paesi baltici come dio dell'abbondanza e della guerra, solitamente raffigurato con quattro facce, in quando in grado di dominare con lo sguardo ogni angolo della terra. I suoi attributi sono la spada (o l'arco) e la cornucopia.

Probabilmente l'associazione con San Vito (peraltro venerato anche nei paesi slavi) è del tutto fittizia. Però immaginate lo stupore di Peter Stauber allorché, passeggiando per la città di Bressanone, all'incrocio dei Portici Maggiori con i Portici Minori si imbatte nella statua di un Salvan con tre teste che incombe dall'alto di una casa. Già era sconvolto dalla visione del Padreterno con tre volti in S. Giuliana (v. IMMAGINI, n. 5), cosa dovrebbe pensare? Se poi si viene a sapere che secondo la tradizione dalle tre bocche della statua escono talvolta delle monete d'oro, l'associazione con la cornucopia è inevitabile...
A dire il vero, sembra che al Salvan di Bressanone le teste laterali siano state apposte in tempi più recenti, ma questo in un romanzo è soltanto un dettaglio trascurabile...
Resta da dire che a me 'sta cosa fa venire in mente il "Manitù" che compariva nel carnevale moenese di qualche decennio fa, maschera in forma di "Om dal Bosch" bifronte, come il Giano latino, o un mezzo Svetovit.
Insomma, non solo il Tre, ma anche il Quattro, ha cittadinanza tra le divinità polimorfe, non vi pare?...

lunedì 2 dicembre 2013

Segni, sogni e sante



• E di questa immagine, che mi dite? è talmente insolita ed inquietante che il lettore dei “Misteri” per lo più resta spiazzato, quasi intimorito: pochissimi infatti me ne ha chiesto la ragione.
Se devo essere sincero, all’inizio l’ossatura del romanzo non prevedeva nulla di tutto ciò, poi ad un certo punto quell’immagine si è imposta con la forza della necessità (potenza della suggestione!), finendo addirittura in copertina.

Ebbene, questo è uno dei “segni” che vengono inviati al povero Peter Stauber (in sogno e nella realtà), forse quello più eloquente, quello che gli consente di rispondere alla domanda: “che cosa si nasconde dietro il culto delle Sante Vergini del Cjaslir”? 

Sulle origini del culto delle cosiddette “Tre Sante Vergini di Maranza” non si sa molto. Si tratta per lo più di leggende e dicerie, e quel poco è riferito nel romanzo. Ma Aubet, Kubet e Gwere: che razza di nomi sono questi? Già, è un bel problema, ma ciò che interessa qui è un altro aspetto della questione: che razza di raffigurazione è mai questa? Cosa ci fa quella povera Santa Gwere seminuda appesa ai rami degli alberi? e le due sorelle oranti ai suoi piedi, rappresentate quasi come la Madona e San Giovanni ai piedi della Croce sul Calvario?

 In effetti questa è l’unica immagine al mondo (per quanto se ne sappia a tutt’oggi) che raffigura le tre sante in quella postura. Solitamente esse appaiono sullo stesso piano, sostanzialmente connotate da attributi iconografici equivalenti: la palma del martirio, il diavolo alla catena, oppure vari attrezzi agricoli, il tutto in modo assai convenzionale, nonché compatibile con la tradizione agiografica che le contraddistingue. 
Per gli studiosi quest’immagine è un vero enigma. Qualcuno la accosta a Santa Kummernis, raffigurata nell’iconografia popolare crudamente martirizzata in croce, irsuta e con tanto di barba (per sfuggire al pagano stupratore aveva ottenuto dal Signore di poter assumere sembianze maschili...), ma come argomenta acutamente Ernst Büch (Der Schlern 1974), qui le cose non tornano: non c’è barba né peluria, e soprattutto non c’è croce, non c’è sangue, non c’è martirio.

C’è invece questa struttura “a triangolo”, che pone una delle tre figure al di sopra delle altre, quasi come una divinità, o comunque una entità sovraordinata. L’accostamento che viene fatto da Büch è con le triadi femminili delle culture antiche (per es. le “Tres Matres” celtiche), spesso raffigurate in modo gerarchico. A me è venuto spontaneo l’accostamento con le tre Vivane che compaiono nella leggenda “La Vivana e l cian”, riferita dal De Rossi (Fiabe e leggende 1984), quando tornano per pronunciare la maledizione, o l’incantesimo, contro colui che le ha offese: quella centrale assume chiaramente il ruolo di “Gran Vivana”... Insomma un’immagine che ha ben poco a che spartire con l’iconografia cristiano-cattolica.

De resto chi conosce la religiosità delle popolazioni afro-americane dei Caraibi o del Sudamerica sa benissimo come dietro le figure dei santi cristiani i discendenti degli schiavi abbiano continuato e continuino a venerare le proprie divinità ancestrali, gli Orixás. E come nel romanzo di Jorge Amado la statua di Santa Barbara (quella dai fulmini) improvvisamente prende vita sotto le sembianze di Yansã per andare tra la gente per sistemare le cose, così nel nostro è l’effige di Sant’Orsola che sparisce e assume forme umane per operare in mezzo al popolo, nella figura inafferrabile di Ursina, o di quell’entità che si rivela a Stauber sotto questo nome...

Troppo azzardato, eh? Cosa c’entra il Brasile con le valli alpine? Nulla: si tratta pur sempre di un romanzo.
Però a pensarci bene nella tradizione ladina c’è qualcosa di simile: la statua di Santa Giuliana in caso di pericolo si anima e scende dall’altare con la spada sguainata per mettere in fuga i nemici del popolo. Niente male, non è vero?

mercoledì 20 novembre 2013

...e allora parliamo di Ursina

... così vi svelo un piccolo retroscena

• L'amico Marco ha ben inteso il ruolo di Ursina, figura emblematica dell'universo femminile e simbolo dell'Eros come forma di conoscenza. Tuttavia è evidente fin dal nome: lei non appartiene propriamente alla società valligiana, altrimenti si chiamerebbe Órsela, come altre donne del romanzo. 
Ursina è infatti la versione esotica (= romancia) di "Ursula", nome comunque connesso con sant'Orsola, e prima ancora con l'Orsa della mitologia.

È altrettanto evidente il richiamo alle Vivane (o Ganes, o Anguane che dir si voglia), creature femminili affascinanti e misteriose che nella tradizione ladina e alpina in generale si uniscono talvolta agli uomini, ma solo a determinate condizioni e per un arco temporale delimitato. Una manna per antropologi e folkloristi (la letteratura sul tema è ormai piuttosto vasta) che si accapigliano per studiare e spiegare i significati nascosti nell'immaginario popolare.
Perché, ovviamente, si tratta di figure dell'immaginario, non è vero? anche se ancora oggi si racconta che in passato queste esistevano davvero, anzi era capitato proprio al classico "bisavolo del cugino di mia moglie" di averne sposato una, ecc. ecc. In realtà nessuno le ha mai viste... 
Eppure, quella immortalata nella foto che ripropongo qui sopra potrebbe proprio essere una Vivana: così grossomodo le descrivono le fonti.

Come dicevo in precedenza, l'immagine non ha nulla a che vedere con la tradizione alpina, ma proviene dalla lontana Lettonia, terra dove "è ancora viva un'antica religione dell'età del Bronzo". Forse la definizione è impropria, ma cito testualmente da un réportage sui riti agrari ancora in uso a quelle latitudini per la festa di Janis, ossia San Giovanni, che cade per l'appunto il 23 giugno, solstizio d'estate. Lo si trova pubblicato in una nota rivista di divulgazione più o meno scientifica. L'amico Cesare Poppi, che all'evento documentato ha preso parte in qualità di antropologo, me ne ha parlato diffusamente. 
Ora posso confessare che a queste testimonianze si ispira liberamente la descrizione dei rituali agresti che in modo del tutto arbitrario ho attribuito a quella conventicola di donne chiamate nel romanzo Fies de Sentovit (figlie di San Vito).

Le immagini parlano da sé. So di incorrere negli strali dei censori, ma tant'è, ognuno si faccia un'opinione e magari dica la sua. Ci sarebbe anche la foto dell'antropologo che balza coraggiosamente oltre il fuoco, rischiando le chiappe, come fa - sempre nel romanzo - il buon Peter Stauber, ma per ora soprassediamo!
Con ciò (ripeto) non ho inteso e non intendo affermare che si esistita una presunta "religione delle streghe": tuttavia, se questi rituali "pagani" sopravvivono ancora oggi in Lettonia, non potrebbero essere stati in uso anche nelle valli alpine in tempi più o meno remoti, prima che la cristianizzazione potesse decretarne la definitiva scomparsa? Certi elementi che si tramandano nei racconti popolari relativi alle Vivane lo lascerebbero comunque supporre... 

martedì 12 novembre 2013

Sostiene Marco Viola...

a proposito di Ursina


• Un romanzo storico frutto di un amore sconfinato per la propria valle e di una rigorosa maniacale attenzione ai particolari, per cui nulla v'è di inventato tranne gli ingredienti necessari a creare un (buon) romanzo. La credibilità e la corretta storicizzazione sono tra le più attendibili e godibili che è dato trovare nel genere; con tutto ciò la lettura è illuminata dall'intreccio di vicende amorose e da intrighi di potere, da conflitti ideologici e da gelosie feroci. I molti commenti sul blog danno ragione della vicenda storica, del fenomeno delle streghe, dei rapporti fra Fassa e il Principato vescovile di Bressanone, ma una delle chiavi di lettura più affascinanti è data dall'amore come via per la conoscenza profonda e intuitiva del mondo. La donna - non ogni donna, va da sé - ma "una donna" può farti balenare saperi ignoti, può rappresentare la porta verso un modo di conoscere diverso da quello abituale, razionale e costruito, lento e pesante. Con Ursina Fabio Chiocchetti ha creato una figura misteriosa ed emblematica insieme dell'universo femminile che anima le nostre montagne: vale davvero la pena di conoscerla.

giovedì 31 ottobre 2013

Un "santo" vescovo?

Ovvero: il maschio di fronte al "mistero" dell'universo femminile


• Viso affilato, sguardo magnetico. Non si può non restare affascinati da questo ritratto...
Quella del vescovo Daniel Zen è e resta una figura controversa. Roland Verra osserva che nel romanzo essa è un po’ troppo idealizzata, "poiché sappiamo che chi detiene il potere non può essere un santo"...
Vero: forse nella realtà Daniel non era esattamente uno “stinco di santo”. Le censure che gli furono rivolte in varie circostanze lasciano trasparire qualche dubbio sul suo effettivo comportamento (ah, quell’ “astuto fassano”!...). Ovviamente sono sospetti che il suo immaginario biografo – da buon amico – si premura di smentire.
Ma questo appartiene al romanzo, il resto lo dovranno appurare gli storici.

Cogliendo invece il ruolo che tale personaggio ricopre sul piano dell’invenzione letteraria, la mia amica O.R. avanza una “critica” di segno opposto: avrei dovuto osare di più.
“Mi sarebbe piaciuto vedere Daniel entrare di più, come uomo e religioso, nel rapporto con Dorothea e con se stesso. Alla fin fine provenivano entrambi dallo stesso mondo. Forse in quel momento avresti potuto approfondire il suo essere “maschio” e condurre una riflessione su questo. Ci si concentra sul rapporto tra i sessi: oggi le donne guardano molto se stesse, ma l’uomo – al di là degli stereotipi – che cos’è, che cosa dice di se stesso, come si vede?...” 

Eh già, avrei potuto... Raccontare del rapporto tra Uomo e Donna, in un preciso contesto storico-culturale, una sfida mica da poco. In confronto, ricostruire determinate vicende documentate è un gioco da ragazzi. A dir la verità ci ho provato anche, ma accidenti, per noi maschietti comprendere il mondo femminile è già un problema in generale: lì sta il vero “mistero”... 

Ci ho provato, senza riuscirci probabilmente, ma non attraverso Daniel, bensì attraverso Peter, suo alter ego, personaggio fittizio, che in quanto tale offriva totale libertà all’immaginazione.
Insomma Daniel più di tanto non poteva addentrarsi, per via razionale, nel rapporto con Dorothea, con la sua visione religiosa e la sua formazione tomista appresa presso i gesuiti. Più sale lungo la scala del potere e più si allontana da Dorothea. È ben vero che provenivano entrambi dallo stesso ambiente, ma ho preferito ugualmente attenermi a un'ipotetica differenza “strutturale” tra Uomo e Donna, anche e soprattutto nella cultura popolare. Per questo ho voluto ritrarre Daniel nella sua impotenza, nella sua solitudine: anche l’incontro in prigione con Dorothea (del tutto improbabile sul piano storico) è e resta un fallimento. Il povero Stauber avrebbe avuto meno condizionamenti intellettuali, tanto da poter sperimentare una forma alternativa di conoscenza grazie al rapporto “magico” ma instabile con Ursina (una santa? una vivana?), cosa che gli consente per un momento di affacciarsi all’altra dimensione. Tuttavia nemmeno lui si raccapezza più di tanto (ed io con lui): forse un’intuizione, un sogno, una visione, ma non molto di più.

Ho dunque preferito tentare l’impresa di dar voce direttamente a quelle donne, non solo a quelle poveracce illetterate finite in catene, o al rogo, ma a tutto quell’universo che sta dietro a loro, mille e mille anni di cultura femminile soffocata dal processo storico che ha segnato l’affermarsi dell’Occidente. Ma uno scrittore “maschio”, per quanto ben disposto ed istruito, di quell’universo non riesce che a cogliere qualche piccolo brandello, “Fragmenta” insomma...

mercoledì 16 ottobre 2013

Se questa è una strega...

Ancora la voce di "quelle donne": cliccate questo link...
http://youtu.be/YomvnFcceUg

• Ursina e Dorothea raccontano la storia "vera" di Maddalena de Valantin da Val, regola di Vigo.
Questa donna è passata dalla storia alla leggenda come la più malvagia e potente di tutte le streghe fassane: la strega Pilatona, portata al rogo a Bressanone in un paiolo di rame (De Rossi, 221).

Nella realtà ebbe probabilmente il torto di essere benestante, avendo sposato in seconde nozze l'oste di Pozza, Gregorio Pilat. Perciò negli atti è citata spesso come Maddalena Pillatin. Il suo è uno dei processi più corposi ed inquietanti tra quelli conservati negli archivi. La sua vicenda storica è riferita nel romanzo in controluce, quasi un controcanto frammentario, rispetto alla trama portante.

Sappiamo che già nel 1617 erano sorte dicerie nei confronti dei due tenutari della locanda, sita a Pozza nei pressi della casa De Rossi (oggi strada Dolomites). Si riteneva che la loro ricchezza provenisse dal possesso di mezzi magici: "semenze di felce", un gomitolo di filo che "fioriva" prodigiosamente, e soprattutto delle strane "pope" (bambole), simulacri diabolici che a richiesta fornivano denaro in abbondanza: il Patto col Diavolo, denaro e fortuna, in cambio dell'anima. Allora a tali dicerie le autorità non diedero credito, ma dieci anni dopo i due non ebbero scampo.
Ripetutamente torturata, Maddalena resiste finché può: nega, ammette e ritratta, infine capitola e confessa ogni sorta di delitti. In uno dei primi interrogatori gli chiedono di quando era sposata a Soraga col primo marito, dal quale aveva due figli: gli chiedono conto del figlio più piccolo, Antonio, che era morto o scomparso in circostanze strane. Non sono domande di circostanza, vogliono sapere se lei ha qualche responsabilità nel fatto: evidentemente qualcuno sospetta un infanticidio per mano delle streghe. Gli atti registrano freddamente la reazione di Maddalena: la donna si batte ripetutamente il ventre. Possiamo solo intuire il suo dolore, crudamente rinnovellato da quelle domande, da quelle insinuazioni...

Anche Dorothea de Freina ha perduto un bambino, neonato per giunta, avuto con un uomo sposato per giunta, da nubile. L'ideale per un sacrificio rituale: le streghe - secondo il Malleus maleficarum - ne mangiavano le carni durante i loro ritrovi notturni, e ne bollivano le ossa per ricavare l'unguento necessario per i loro sortilegi.
Dorothea sa, conosce quel dolore indicibile di madre, e conosce il peso di quelle infamanti accuse. E allora racconta. Racconta la "vera" storia di Maddalena de Valantin, detta la Pilatona. Se questa è una strega...


NB: Fragmenta n. 7. Il passo è splendidamente interpretato da Martina Chiocchetti e Loretta Florian (riprese e montaggio di Nicola Detomas). La traduzione si trova alle pagine 199-200 de "I Misteri del Cjaslir". Oggi lo potete scaricare dal web come ebook, al prezzo di soli € 4,90.

http://www.bookrepublic.it/search/?query=curcu+egenovese.

sabato 5 ottobre 2013

Piere dal Polver e gli altri

Questioni di modestia e di pseudonimi

• Il mio amico G.B., dopo aver letto e apprezzato (bontà sua) la mia “ultima fatica letteraria” mi manda un post su fb con il seguente rilievo:

«C'è solo una cosa che però mi ha lasciato un po' perplesso: a suo tempo, quando avevo letto gli altri tuoi due libri (usciti sotto pseudonimo) avevo molto apprezzato il fatto che avessi deciso di non metterti "in mostra", lo avevo trovato un gesto di splendida modestia che dava ancor maggiore luce alla tua sterminata cultura, perché quindi uscire allo scoperto ora e far riportare nel retrocopertina anche i libri usciti sotto pseudonimo? Che bisogno c'era? Perché uno dovrebbe pubblicare sotto pseudonimo e poi far sapere a tutti d'essere l'autore?
Tutto ciò non toglie i meriti dei tuoi scritti ma francamente la vedo come un'incongruenza che in sé non porta nulla.
Poi va detto che non trovando altri appigli per farti una critica mi sono dovuto aggrappare a questo per andare a cercare il classico pelo nell'uovo.»

A parte l'accenno alla "sterminata cultura" (che mi sembra un po' eccessivo), l’ho ringraziato, e lo ringrazio, per la sua amabile osservazione, anzi approfitto per rilanciare la discussione su queste pagine.

Confesso che ho inutilmente tentato fino all'ultimo di far uscire il libro sotto il nome di "Fabio C.", ma l'Editore è stato irremovibile. L'altra volta (con “il volo di Ícaro”) non c'erano stati problemi: in sostanza si trattava di un'auto-edizione, anche se l'amico Claudio Nicolodi ci aveva messo l'etichetta. Ho provato anche a far passare l'idea di firmare col nome del protagonista (Peter Stauber, alludendo all'altro pseudonimo "Piere dal Polver" che ho usato negli scritti ladini), sarebbe stato carino.
Forse non è nemmeno questione di modestia: è vero che non mi piace mettermi in mostra, però più che di anonimato, si sarebbe trattato di un "gioco a nascondino", o un gioco degli specchi, come è accaduto e accade ancora in letteratura.
Insomma, per un lavoro così impegnativo mi hanno convinto che era necessario anche "metterci la faccia". Non ti dico come ha risposto l'Editore quando (scherzando) ho citato l'esempio di "Melissa P.", ma lo potete immaginare...
Come avrei fatto, del resto, a presenziare alle varie presentazioni? con una maschera sulla faccia? C'era anche il progetto di restauro del dipinto... A quel punto, tanto valeva scoprire le carte anche con gli altri lavori, tanto la maggior parte sa e sapeva già. Scelta certamente criticabile, ma che volete, nella vita bisogna mediare.

Allora approfitto per citare per esteso anche i miei precedenti lavoretti, così magari qualcuno si aggiunge ai miei (stavolta davvero pochi) lettori.
Questo vale in particolare per “La storia vera del Drach de Dona”, libretto di un’ottantina di pagine pubblicato per l’appunto con lo pseudonimo di “Piere dal Polver” dall’Istituto Culturale Ladino (2005), e passato quasi inosservato (meno che all’acuta vista di Giorgio Jellici che lo ha recensito in “Mondo Ladino” 29). Del resto chi scrive in una lingua minoritaria sa benissimo che la cerchia dei potenziali lettori è assai ristretta.
Ma mi piace qui ricordare quel lavoretto, poiché contiene (pur in chiave ironica e satirica) riferimenti a temi e figure della mitologia ladina che ritorneranno nei “Misteri” come uno dei filoni portanti della narrazione. Per chi conosce appena un po’ di tedesco la relazione tra “Piere dal Polver” e “Peter Stauber” non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.

La scelta di scrivere in italiano “Il volo di Ícaro. Storie di ordinaria marginalità a Salvador da Bahía” (Nicolodi 2003) è stata istintiva, quasi automatica, e le ragioni sono facilmente intuibili. Qui “Piere dal Polver” come pseudonimo non aveva senso: allora perché non “Fabio C.”? Suonava bene... Vabbè, è una storia lunga, che si conclude con un epilogo: “Ícaro non vola”, scritto nel 2010 dopo il mio ultimo viaggio in Brasile. Si trova in una pubblicazione online dell’Istituto di romanistica dell’Università di Berlino.
http://www2.hu-berlin.de/festschrift-kattenbusch/chiocchetti-icaro.html

Cito questa avventura solo perché qualche attento lettore dei “Misteri” avrà colto sicuramente qualche vago riverbero proveniente dal sincretismo afro-brasiliano. O sbaglio?

mercoledì 11 settembre 2013

La voce delle Vivane

A proposito dei "Fragmenta"...

• C'è chi li considera tra le cose migliori del libro, c'è chi fatica a prenderli sul serio. Punti di vista. Se però questo significa supporre che essi contengano affermazioni sulla realtà storica dell'epoca, allora non ci siamo. Sarebbe come dire che la stupenda opera di Filip Moroder riprodotta qui accanto sottintenda che le Vivane, Anguane o Ganes che dir si voglia, esistono davvero.
Qui siamo su un altro terreno, quello della creazione artistica, o letteraria (a prescindere dal risultato, beninteso). Ed eccola dunque la voce di queste creature, eccolo il "Lament de le Vivane", al frammento n. 9. E affinché la cosa fosse chiara, ecco l'indizio, nel commento del narratore:
"Sono i versi di uno strano canto che ho udito un giorno dalla voce dolcissima di Ursina sull'Alpe di Dier. Sembra contenere un dolente messaggio ai posteri, o un ammonimento. Ne ho trascritto rapidamente il testo a sua insaputa, ma non c'è stato il tempo di annotare la melodia. Un giorno forse lo farò, l'ho ben impressa nella memoria: è molto strana anch'essa, lamentosa, ma toccante".

Bene: Piere dal Polver ha colpito ancora. Ora è possibile ascoltarla, la voce delle Vivane. "Misteri", miracoli della tecnica (e del web). Cliccate qui, se non ci credete:
http://www.youtube.com/watch?v=6l_Mm_vALcA&feature=em-upload_owner

"O belle montagne, nostra magione
se l'uomo sapesse chi noi siamo
se sapesse che teniamo nelle nostre mani
salute, ricchezza e amore
non saremmo scacciate con il cane..."

Chi è Ursina? Chi è questo "Io narrante" alternativo che parla in nome di "quelle donne" e che si contrappone a Peter Stauber, pur nel tentativo di fargli intuire ciò da solo non riesce a comprendere razionalmente? Se vogliamo dargli un volto potremmo tornare per un momento a un'immagine già nota ai lettori di queste pagine: essa non è estranea alla genesi del nostro personaggio. 
Ma accidenti, questa non è una statua, è una foto, il ritratto di una persona "reale"!... E poi dicono che le Vivane non esistono! Ma allora? Com'è questa storia? Qualcosa vi ha già detto Cesare Poppi in un suo commento, ma cosa c'entra tutto questo col romanzo? Beh, magari ci torniamo sopra un'altra volta, se volete, ok?

P.S.:  Potete ascoltare l'intero brano nel cd "Marascogn - L poet e la vivana" (Union di Ladins de Fascia 2008). La prima strofa del testo proviene da un racconto della tradizione orale fassana, raccolto all'inizio del secolo da Hugo de Rossi (ora in: "Fiabe e leggende della Valle di Fassa", ICL 1984). Per informazioni e richieste:

union@ladinsdefascia.it
info@istladin.net
www.istladin.net

giovedì 5 settembre 2013

Il pensiero di un "Cimbro"

ovvero: Andrea Nicolussi Golo 

• Fabio Chiocchetti in un altro tempo lo si sarebbe chiamato uomo di multiforme ingegno, musicista e musicologo, studioso di linguistica, critico letterario, romanziere. Si interessa di Storia, quella con la S grande, ha dato alle stampe libri in italiano e ladino, ha incontrato la marginalità e ne ha scritto: indimenticabile il suo racconto “Il Volo di Icaro” e amaro il suo disincanto in “Icaro non vola più”. Ecco, quello che mi intimidisce in Fabio Chiocchetti è proprio questo, il suo approccio al sapere, fuori moda nel mondo di oggi. Spero di non offenderlo se lo definisco rinascimentale, ma per me è un grande complimento: di quei giganti ha la curiosità e lo stupore davanti alle cose anche se con la sua aria tranquilla da signore di campagna cerca di nascondersi.

Adesso Fabio si presenta con questo libro importante. Qualcuno, che dal cognome potrebbe avere origini dalla sua terra, recensendolo gli augura di diventare un best seller, perché ve ne sono tutti gli ingredienti, dice: mistero, suspense, crimine, religione e sesso, anch’io mi auguro e auguro a Fabio che il libro venda moltissimo (anche perché se non sbaglio i guadagni andrebbero impiegati per una buona causa), ma se ciò avvenisse non sarà di certo per gli ingredienti sapientemente amalgamati come si usa fare oggigiorno per costruire un best seller, un po’ di avventura, un pizzico di religione… (qualche grasso frate lussurioso fa sempre la sua bella figura dopo “Il Nome della Rosa”), una manciata di mistero, efferatezze assortite, una spruzzatina di storia vera e sesso QB… quanto basta. No, se questo libro avrà una grande diffusione, se avrà successo, sarà solo perché il mondo è un pochino migliore di quello che comunemente pensiamo, perché questo è uno di quei libri non inutili dei quali parlava Nuto Revelli nella sua poesia dedicata a Mario Rigoni Stern e a Primo Levi, autori appunto di libri non inutili, a giudizio del grande Nuto (e mio naturalmente). Sì, questo è un libro che vale la pena di leggere, un libro bello perché non facile, a mio avviso tutto il contrario, purtroppo, di un best seller di oggi.

Sono tanti gli incontri che si fanno dentro quelle 446 pagine e per tenere conto di tutto occorre davvero impegnarsi. Il primo incontro e non poteva essere diversamente è con la lingua ladina, una lingua che io non conoscevo. Per uno come me, che si occupa di lingue piccole ogni giorno questa potrebbe essere una confessione di inefficienza, ma non è così, il Ladino lo conosco e pensavo anche di conoscerlo piuttosto bene, ma non conoscevo questa lingua potente ed evocativa, che ha poco a che vedere con il ladino dei mass media. Ecco l’aggancio forte al tema di oggi: questo è ladino letterario, ben diverso da quello necessariamente usa e getta di una pagina di quotidiano. (...) Per le lingue piccole la cosa è ancora più complessa, difficilmente le lingue piccole riescono a cambiare tono ad avere registri diversi da quello orale, occorre impegno e conoscenza, conoscenza e impegno, entrambe profuse a piene mani da Fabio Chiocchetti in questo libro per il suo Ladino. 

Il secondo incontro è l’orso, il totem delle genti alpine, rispettato invocato e odiato in ugual misura, simbolo della forza primigenia della natura. Simbolo di una sacralità infinitamente lontana da una religione che il Concilio di Trento vuole cristallina di fede purissima, di solo cielo. Simbolo di una religione di terra. E in fondo questo racconta il libro lo scontro tra la sacralità della terra con la sacralità del cielo, uno scontro tra il corpo e l’anima. A specchio con l’orso l’altro incontro è con Nikolaus Krebs von Kues il vescovo di Bressanone, il cardinale filosofo, teologo, umanista, giurista, matematico, astronomo, l’uomo del Concilio di Basilea, l’ambasciatore del papa a Costantinopoli che, come sorgente carsica di sapienza, emerge per ricordarci qua e là il giusto equilibrio tra ragione, fede e natura. Io sono devoto a Nikolaus Krebs, Nicolò Cusano, mo lo è, anche se non esplicitamente dichiarato, pure il protagonista della storia… e forse anche Fabio Chiocchetti.

Naturalmente incontriamo il vescovo valligiano Daniel Zen da Vig, o meglio il suo biografo alter ego narratore Peter Stauber, che non può non raccogliere in sé anche molta della personalità di chi scrive. E poi incontriamo le donne, le dee della fertilità mascherate sotto mille maschere ma sempre riconoscibili, e poi le donne della sua valle, sua di Daniel ma anche sua di Fabio: donne che la fatica rende misteriosamente belle e forti. Donne a cui il libro è esplicitamente dedicato.

Non voglio svelare la storia, oltre a quello che recita il risvolto di copertina: “storia di un santo vescovo e di una presunta strega”, ma se per caso coltivate delle curiosità pruriginose attorno a streghe, inquisitori, uomini di religione, torture,... lasciate perdere, non provate nemmeno a leggere questo libro, rimarreste delusi, andate in una qualsiasi libreria e ne avrete da stufarvi: scaffali pieni di libri di genere vi aspettano. Questo non è un libro di genere, non lo è per come è nato, da fonti storiche, non lo è per come è scritto: io che l’ho appena finito di leggere posso assicurarvelo.
Se invece vorrete sapere qualcosa di più e di più profondo, di vero (nonostante l’artificio del romanzo) di noi, e metto in questo noi anche la mia gente cimbra, se vorrete saperne di più delle genti delle Alpi della loro fede perduta, che come i nativi d’America dava anima ad ogni essere del creato vivente e non, questo libro avete il dovere di leggerlo: vi farà riflettere a lungo. Grazie Fabio.


(Dalla presentazione de “I Misteri del Cjaslir”, in occasione del convegno “Le Parole del Cuore”, Festival della montagna consapevole Tra le Rocce e il Cielo, 30 agosto 2013)


A proposito di Cimbro mi viene in mente che nella mia lingua madre sono innumerevoli le tracce di antichi credi: il termine arcaico “hagezusa” per esempio, che stava ad indicare le sacerdotesse silvane, guaritrici e indovine, è passato nei dialetti germanici come termine dispregiativo “zusl”; nella lingua cimbra, “züzzl” conserva invece ancora intatte le sue connotazioni benigne, ancora oggi ti può capitare di sentire una vecchietta rivolgersi ad una ragazza in fiore dicendole “Du pist a züzzl”, e ad una bambinetta cortese e simpatica con il vezzeggiativo “Schauge betta schümma züzzele du pist”, ignorando naturalmente con questo di evocare le antiche sacerdotesse, ma per me che “so” ogni volta è un tuffo al cuore e non posso non andare con il pensiero a Dorothea e alle altre, a tutte le altre.

martedì 3 settembre 2013

Sulla presunta "religione delle streghe"

Un flash di Cesare Poppi, antropologo


• Ho troppi interrogativi - ma anche qualche certezza - sulla plausibilità di una sopravvivenza in epoca storica di una “religione” matriarcale, ecologista, pacifista, anarchica e buonista, nonché “monogenitrice/agamica”, per prendere gli intermezzi “sul serio” - pur nel senso fictional del termine (li trovo in tutta franchezza la parte meno convincente del lavoro: si concedono troppo al lettore dopo la fatica di seguire il dotto filologo). 
Questo non perché non creda alla “continuità” di certe espressioni (e frammenti di forme) culturali etc... - al contrario. È che non penso affatto, come hanno fatto la Murray (Ginzburg ed altri poi) che sia mai esistita una “religione” di quel tipo, con le sue teologie, liturgie, forme organizzative speculari e alternative alla “religione” così come si è configurata in quei secoli. 

Ho avuto modo di frequentare una “religione pagana” con una certa profondità d’esperienza per capire, secondo - certo - analogie etnografiche complesse, come non sia la “sostanza” di quello che uno “crede” ciò che conta, ma una compiuta ed impellente “forma” (Marx - forse Cassirer) dovuta alla micidiale condizione materiale dell'esistenza. Una Dorotea in QUEI termini è concepibile solo dal NOSTRO punto di vista: è dunque, etnostoricamente, a mio avviso etnostoricamente-centrica. Altrimenti non si spiega - ad esempio - come i Vagla neoconvertiti (NE Ghana) vadano a messa poi tornino a casa a sacrificare agli antenati, o come le prime “streghe” confessassero ingenue e tranquille: erano “su un altro pianeta culturale”. Forme dunque dell'esperienza religiosa incommensurabili ma storicamente hinged (intraducibile: “innestate le une sulle altre...”). Fra queste forme, in sintesi, c'è una differenza cruciale - cognitiva, psicologica, esperienziale: sono - dal punto di vista della cultura religiosa storicamente vincente (Il Libro, scrittura, interpretazione, potere clericale etc...: Giudaismo, Cristianesimo ed Islam, non a caso in sempiterno conflitto) - “dominanti” non solo nella forma, ma a fait historiquement accompli, anche poi nel dettare la forma del contenuto. 

Dunque non “religioni alternative”, come le vogliono i neopagani, che propongono caricature grottesche, ovvero modellate su forme di religiosità storicamente e culturalmente incommensurabili.
In sostanza: per me l'episodio “stregoneria” è - in tutto e per tutto, come già ho scritto e spero di poter prima o poi ribadire con più sostanza - un fenomeno largamente “moderno” - moderno e giocato DENTRO la modernità - e non sullo scontro fra una “modernità” vincente di contro ad una “tradizione” demonizzata e morente (mi fanno un po' paura in questo senso le letture “new age sotto l'ombrellone” che traspaiono da certi commenti nel blog). Versione illuminista oggi obsoleta, ma comunque vincente nelle sue versioni populiste...

lunedì 26 agosto 2013

Apollineo vs. dionisiaco

di Fabio Lucchi 


• Dopo avere terminato la lettura dei "Misteri", sono stato anche a Santa Giuliana: concordo nella sensazione di cui si è parlato anche nella presentazione del libro a Vigo, che si tratti di un luogo davvero particolare e chissà come doveva essere solo non tantissimi anni fa, senza la funivia.
Ho sentito dire che in Oriente, nei luoghi dove hanno vissuto e praticato monaci buddhisti la natura è più rigogliosa, c'è una serenità speciale che si protrae anche a distanza di molti anni dalla scomparsa di queste persone con caratteristiche non comuni. Vai a capire.

In questo è facile sentirsi simili a Stauber: tanti elementi raccolti, tante suggestioni che sembrano portare vicino ad "un qualcosa" che alla fine sembra sempre comunque allontanarsi ed aprire verso nuove ipotesi, senza mai arrivare ad una "quadratura" definitiva.
I Misteri del Cjaslir mi hanno riportato per una serie di analogie ad argomenti studiati ormai tanti anni fa e a suggestioni più recenti. Mi riferisco prima di tutto alle modalità conoscitive che Daniel Zen e Dorothea simboleggiano e che rimandano al tema dell' "apollineo vs dionisiaco", a questi due "mondi" che si ritrovano variamente declinati non solo nella cultura greca e non solo nelle regioni europee.
Ricordi liceali riportano ai passi del Simposio di Platone in cui Diotima, la "maestra" di Socrate di origine tracia che curava con l'erba di Zalmosside e spiegava che le cose possono essere e non essere anche nello stesso tempo, non prima in un modo e in seguito in un altro: la sua descrizione aiuta Socrate a delineare la "figura" del "tìmetaxú", di Eros ma anche di tutti i "daimones" che stanno fra le cose, fra le diverse dimensioni e "scompigliano" l'ordine logico e nello stesso tempo fanno "girare" le cose della vita. 
Tutto questo appartiene alla sfera di Dioniso e si contrappone ad Apollo, il dio che vede e colpisce da lontano con l'arco (anche Zen aveva fra le sue caratteristiche quella di dovere avvistare come le oche del suo segno famigliare)... le associazioni potrebbero proseguire e richiedere competenze specifiche che non mi appartengono e per le quali potrebbe essere interessante tornare a leggere i testi di Giorgio Colli, anche quelli in cui si ipotizza che anche Apollo - prima di essere la figura mitologica che conosciamo -, abbia radici arcaiche che rimandano anch'esse ad una tradizione dionisica più oscura, legata allo stato di manìa come situazione favorente la capacità delle pizie di vaticinare il futuro attraverso enigmi, ecc.

Questa cosa di Dioniso e di Apollo, del dio dell'arco (che conosce colpendo da lontano) e del dio della lira (che conosce immergendosi nell'oggetto della conoscenza), ce la ritroviamo da altre parti, in altre letture più vicine a noi. Ad esempio in Thomas Mann che nei suoi libri riportava proprio in prima pagina l'effige dell'arco e della lira: questa tensione fra opposti mondi passa probabilmente attraverso il tempo, attraverso i luoghi e ripropone un qualcosa di insito nella nostra psicologia, nel modo di stare insieme in modo sociale, ecc., come se fosse una sorta di sistole e diastole in ritmo del procedere delle cose e delle persone.
Non credo che ciò sia solo un argomento di conversazione vacanziera fine a se stesso..rimanda anche al senso della conoscenza scientifica, ai "saperi forti" che tendono ad imporsi-in un momento in cui le conoscenze o sono "basate sulle evidenze" (apollinee?) oppure non sono- sulla "debolezza" di molte discipline che tuttavia sopravvivono anche attraverso strumenti diversi.
Torno ai Misteri, a Dorothea e alla "sorelle" passando ancora per la Grecia e per Pergamo in particolare per recuperare una riflessione sulle radici dei percorsi di cura che sembrano andare a lambire quella complessità che Stauber coglie senza potere catturare appieno.
A Pergamo il tempio della medicina più importante di tutto l'ellenismo, c'era sì il tempio del dio della medicina ma accanto ad esso ce n'è uno più piccolo di un dio minore, di un tì metaxú verrebbe da dire, che è Telesforo, io dio/daimon della guarigione, il dio "che porta le cose a compimento": i pazienti, una volta ricevuta la cura del dio della medicina, si recavano presso il tempio di Telesforo per una notte in attesa di sogni che indicassero la guarigione o meno... siamo quindi, mi pare, in una dimensione non molto apollinea.

Con questo voglio dire che dalla grecità in poi ha continuato a porsi, in tutti i campi, il problema della irriducibilità ad un pensiero "unico" e che alla fine questo ritorna sempre o quasi anche quando o in quei settori dove sarebbe comodo negarlo o "addomesticarlo".
Non so se ci sia una soluzione per tenere insieme queste dissonanze o si debba imparare ad ascoltare e parlare questi due linguaggi...
I Misteri del Cjaslir mi hanno riportato a ripercorrere questi pensieri in un modo più o meno confuso: a me è piaciuto averne avuta l'occasione aggiungendovi del materiale della storia fassano che non conoscevo e per il quale La ringrazio.

domenica 25 agosto 2013

... e quello di Giorgio Jellici


NB: saggista, autore di "racconti brevi"

• “Cjaslir”, una montagna di carne al fuoco 

Nei “Misteri” di Fabio Chiocchetti storia e storie, ladino, tedesco, arcana lingua di fate. E gli ingredienti di un thriller


"I Misteri del Cjaslir - Storia di un santo vescovo e di una presunta strega" - (Ed.: Curcu & Genovese, p. 453, maggio 2013, Euro 18,) - di Fabio Chiocchetti, è tutto, tranne un libro certo d'esser letto fino alla fine. Eppure è un eccellente lavoro. E allora perché? Troppa carne al fuoco? Forse. E il fuoco è spesso nascosto sotto un intreccio di temi che si ramificano e si sovrappongono. Molti - non dubbio - compreranno "I Misteri" affascinati dal titolo e dalla bellissima, impressionante copertina. Altri lo riceveranno in omaggio o in regalo. Ma quanti ce a faranno ad assaporare il voluminoso volume dalla prima all'ultima pagina? Sarebbe però un peccato se troppi capitolassero cammin facendo, perché ogni pagina è condita di storia e di storie, di considerazioni filosofiche e teologiche, di citazioni in ladino, in tedesco, in latino e nell'arcana lingua delle fate ignota alla gente comune.

L’autore dipana la sua matassa senza fretta, sicuro del fatto suo e dedica ad ogni ramificazione la cura e l’amore dell’esperto. Ed è proprio la sua erudizione che – paradossalmente - ostacola talvolta il flusso del racconto, perché, pur arricchendolo, lo dilunga, lo suddivide in rivi e rigagnoli, in corsi d’acqua paralleli, in tortuosi e vasti meandri, come in un estuario dove i fiumi sotterranei riaffiorano più tardi. In dotte digressioni l’autore ricorda le procedure d’insediamento dei principi-vescovi, gli intrighi e le lotte tra imperatori e principi, le teorie di Tolomeo e di Galileo e parla della madre e della zia lontana di Keplero, delle esternazioni e dei misfatti del Sant’Uffizio, dei passi oscuri dedicati da Giordano Bruno al “coitus reservatus” e, non senza sospiri, medita sull’ars amatoria delle buone fate del Cjampedìe con rispettivo vademecum copulatorio: l’uomo, di preferenza, “si faccia cavalcare dalla femmina”.

Chiocchetti sa molte storie e ce le racconta tutte, infiorellate di questioni aperte e di fatti di cronaca del Tirolo seicentesco che stimolano la fantasia del lettore. Trave portante del romanzo sono la vita e le opere di Daniel Zen, personaggio storico, “di così umili origini ed accorto ingegno”, nato in Fassa alla fine del Cinquecento, educato dai Padri Gesuiti e morto Vescovo di Bressanone e Principe “vigilantissimo” dell’Impero. Narratore in prima persona, cronista del suo signore Principe-Vescovo e suo fidato amico da sempre, è un certo Peter Stauber, personaggio inventato, versione tedesca del noto Piere dal Polver, a sua volta pseudonimo dell’autore. Sì, sì, questo lavoro si compone di diversi strati che il lettore deve avvertire ed attraversare.

Sfondo storico del dramma sono i processi per stregoneria avvenuti a Bressanone nel Cinquecento e nel Seicento, quando furono torturate, mutilate, trucidate, decapitate e bruciate vive centinaia di povere donne, ma anche uomini e bambini - ben inteso, innocenti. Di conseguenza il lavoro di Chiocchetti è anche un’orazione contro l’oscurantismo culturale, i pregiudizi, le superstizioni e il fanatismo religioso che vede streghe ed eresie ovunque: “Quanta morte è stata perpetrata in nome di Dio!”. E qui sta forse il suo più grande merito. Ma è anche un’ode all’ “Amore principio cosmico che pervade ogni cosa ed ogni cosa connette al Tutto”. Le buone fate del Cjampedìe ripetono: “… non attraverso la violenza e l’odio si può condurre l’uomo alla Salvezza Eterna”.

Protagonista, diciamo, geografico del racconto è il santuario di Sent’Ujana (Santa Giuliana), sul colle del Cjaslir, sopra Vigo di Fassa, luogo di riti antichi precristiani e tempio di devozione e confort di fascegn fino ai giorni nostri. Però, a nostro modesto avviso, le pagine più poetiche del voluminoso volume sono i “Fragmenta” che precedono ognuno dei 14 capitoli: riflessioni, quadretti a sé stanti di profonda spiritualità, al margine del racconto, scritti in un fassano dal tono arcaico e melodioso, che scorre preciso come una composizione dodecafonica – purtroppo la loro comprensione è riservata alla cerchia limitata di chi domina questo stupendo idioma. Comprensibilissimo invece è il furioso alterco al capitolo 14, che ha luogo nella cella campanaria della chiesa di Nostra Signora a Bressanone: l’episodio, il crescendo di inattese rivelazioni e il colpo di scena finale sono diretti con bravura degna dell’Hitchkock più classico di “Vertigo”.

In conclusione l’opera di Chiocchetti contiene – indubbiamente per caso, conoscendo il serafico candore dell’autore – tutti gli ingredienti che ne possono fare un best seller: mistero, cultura, suspense, crimine, religione e sesso. E perché mai, in barba alle nostre riserve iniziali, questa non potrebbe essere la volta de “I Misteri del Cjaslir”?

Anter le gràmole del louf, enbèn, mie bon Piere!

(Il Trentino - Mercoledì 21 Agosto 2013 - costume & società)

Il parere di Guerrino Ermacora

NB: uno che di romanzi storici se ne intende...

Da: Guerrino Ermacora http://www.guerrinoermacora.com/
Data: giovedì 4 luglio 2013
A: Cesare Poppi (antropologo)





• Ho appena finito di leggere "I misteri del Cjaslir". Trovo il libro interessante.

a) Innanzitutto ricostruisce in maniera puntuale e documentata la realtà storica di un'epoca, unitamente al mondo contadino, nobiliare e cittadino (Val di Fassa, Bressanon, ecc...). Inutile dire che il volume sarà particolarmente apprezzato dalla tua gente, lieta di ritrovarsi nei fasti (e nei meno fasti) antichi, per contemplare e ripercorrere il mondo che fu. L’autore del romanzo ha lavorato a lungo ed è stato beneficato da importanti consulenze.

b) Pregevole è lo sviluppo narrativo che si svolge su tre piani. Le realtà temporali s'intrecciano con garbo, sono speculari e pertinenti, aiutano il lettore a situarsi, lo coinvolgono in modo progressivo, stimolando l'interesse. Nella parte finale della narrazione persuadono del tutto. A mio avviso, la cosa non è di poco conto. La capacità di gestire un libro del genere è appannaggio di pochi.

c) In linea con i gusti del momento, l'autore propone tematiche appetibili. Ha la capacità (rara, ai nostri giorni) di proporre figure femminili di natura immaginaria, ma verosimili. Tali figure si mescolano abilmente ad altre donne (Dorothea di Freina, ad esempio), personaggio documentato, il quale assurge a funzione iconica capace di travalicare la dimensione storica fattuale. Per nostra fortuna, mai il romanzo travalica nel fantasy.

d) La documentazione folklorica può trovare ovunque riscontri scientifici, ed è d'indubbio interesse (a te, antropologo, l'ultimo giudizio). Vago e immaginoso è il collegamento con gli echi residuali di un'antichità precristiana, riferito a numi inconsueti e non documentabili, come pure a ritualità legate al colle del Cjaslir (o a riti di fertilità soggiacenti alla vagheggiata "triade femminile", o alle tele narrative che suscitano le sante vergini dei primi secoli, inclusa la patrona Santa Giuliana - elementi cardine del romanzo). Ma tant'è. Un romanzo deve essere un romanzo. Questo, giustamente, lo perdoniamo e lo accogliamo volentieri. Anzi, ben venga.

e) Il libro oscilla sulla difficile linea di demarcazione che corre tra il saggio storico e del romanzo. Lo confronto con il mio "I giorni del crociato". Non licet magna componere parvulis, ma il mio testo è innanzitutto un romanzo. "I misteri del Cjasrlir", che vuole essere romanzo, è soprattutto un saggio. Ognuno ha i suoi equilibri. Capisco l'editore e l'autore i quali - come ho già detto - hanno un mercato editoriale in un'area specifica (alla quale forniscono un'opera di pregio, anzi, molto di pregio). Penso, invece, alla genia cui sono abituato (cioè agli editor che seguono i romanzi). Nel nostro caso ("I misteri del Cjaslir") forse (dico forse, perché non ho verità in tasca, tutt'altro) avrebbero alleggerito il romanzo di 150 pagine e imposto la novità di venti o trenta pagine con sentimenti e cosine varie correlate. Ovviamente tale operazione avrebbe stravolto l'impostazione complessiva del libro e orientato l'autore a fornire un prodotto diverso. Ciò non è accaduto. Benedetto sia l'editor che non c'era.

f) Il romanzo è scritto in un lessico scorrevole e appropriato, in certe parti ricco, come si addice a un autore colto. Onore all'autore, dunque. Ma sia detto che al Chiocchetti manca il guizzo e la capacità evocativa dello scrittore grande, capace di sedurti in poche righe (non si può avere tutto nella vita - già abbiamo ricevuto molto).

sabato 24 agosto 2013

Il Sole 24 Ore on line - Domenica libri

Un sant'uomo e una presunta strega dentro i misteri del Cjaslir 

di Piero Fornara 13 luglio 2013

«Anno Domini 1628, vigilia della Domenica di Passione, sotto il governo del nostro graziosissimo ed eccellentissimo signore, Daniel Zen, per grazia di Dio Onnipotente Principe e Vescovo di Bressanon, (…) io Peter Stauber, umile servo di sua grazia, scrivano e suo segretario personale, principio a scrivere queste povere memorie». Sullo sfondo delle guerre di religione e dei conflitti che segnarono nel secolo XVII i rapporti tra Stato e Chiesa, tra fede e ragione, arriva in libreria il romanzo storico di Fabio Chiocchetti "I misteri del Cjaslir – Storia di un santo vescovo e di una presunta strega" (pagg. 453, € 18,00), pubblicato dall'editore trentino Curcu & Genovese. Attraverso l'invenzione letteraria di Peter Stauber come biografo del protagonista, Chiocchetti racconta una vicenda accaduta quasi quattrocento anni fa nella città vescovile di Bressanone e in Val di Fassa, intrecciata con i processi per stregoneria che interessarono drammaticamente la comunità fassana negli anni 1627-28, e la devozione ancestrale che ancora permane intorno al santuario di Santa Giuliana sul colle del Cjaslir, uno dei più antichi insediamenti della valle.

Storico è invece il personaggio di Daniel Zen (1584-1628) principe-vescovo di modeste origini, che appena eletto si trova a gestire un processo di massa contro presunte streghe della sua terra, la Val di Fassa; documentata storicamente è anche la figura di Dorothea de Freina, donna dai poteri misteriosi che egli ha conosciuto in gioventù. Due vite parallele, tragicamente collegate, di cui è testimone Stauber, che così prosegue nel prologo del libro: «Daniel Zen, mio buon Signore ed amico, è afflitto da un male oscuro e pernicioso. Spesso la notte è scosso da tremori e fitte lancinanti», eppure «la sua elezione, così inattesa e subitanea, ebbe a suscitare inizialmente grandi speranze nel popolo di Dio; (…) ma non solo speranze, ahimè, che intrighi e maldicenze accompagnarono fin da quel giorno il suo cammino, ostacolando in ogni modo la sua azione volta a rinnovare il Principato in spirito di pace e verità».
Per la posizione strategica tra Nord e Sud dell'Europa, fin dall'XI secolo i vescovi di Trento e di Bressanone vennero investiti anche del potere temporale come "principi dell'Impero", esercitando sul loro territorio non soltanto la giurisdizione ecclesiastica, ma anche l'autorità politica e giuridica. I principati furono soppressi soltanto in epoca napoleonica. Daniel Zen è l'unico ladino divenuto principe-vescovo di Bressanone, ma il suo episcopato è stato anche il più breve della storia della diocesi (la sua pietra tombale è visibile all'estremità sinistra del portico davanti al duomo di Bressanone).
Ai "Misteri del Cjaslir" l'autore ha lavorato per tre anni, consultando circa quattromila fogli manoscritti risalenti al Seicento. Chiocchetti è anche il direttore dell'Istituto culturale ladino, che ha sede nel "Tobià de la Pieif", il grande fienile ristrutturato presso la Pieve di Fassa, l'antica chiesa battesimale della valle. Il colle del Cjaslir si raggiunge agevolmente da Vigo di Fassa, dove c'è ancora la casa natale di Daniel Zen, che presenta sulla facciata affreschi secenteschi di Sant'Antonio da Padova e San Giovanni Battista.
(...) Il santuario di Santa Giuliana è un luogo di pellegrinaggio da sempre venerato. Interessante il ciclo di affreschi absidale del XV secolo, dove si vede il Padre Eterno dal triplice volto (rappresentato cioè nelle tre persone di Padre, Figlio e Spirito Santo) e anche "pantocratore" (rara raffigurazione bizantina e medioevale), maestoso e benedicente con tre dita della mano destra. Poco prima di arrivare alla chiesa, si raggiunge un cimitero del conflitto 1914-18, recentemente restaurato, dove sono stati sepolti circa 500 soldati austroungarici e altri 200 militari di varie nazionalità, deceduti durante la prigionia di guerra.
Fabio Chiocchetti, "I misteri del Cjaslir – Storia di un santo vescovo e di una presunta strega", Curcu & Genovese editori, pagg. 453, € 18,00

Primi messaggi e commenti ricevuti

NB: sono gradite anche le critiche, incluse le segnalazioni di eventuali errori di stampa, se mai ci dovesse essere una ristampa...


• 1.
Da: Flavio Vadagnini
Data: 14 giugno 2013

Ho finito da poco di leggere il tuo libro. Devo farti i complimenti perchè hai saputo coinvolgere il lettore a molti livelli di lettura, con riferimenti all'attualità, ma anche con ricostruzione verosimile della situazione di quegli anni. Alcuni passaggi mi hanno fatto pensare ai miti e le credenze aborigene dell'Australia (il tempo del sogno). Evidentemente è sempre esistito anche in tempi e luoghi lontanissimi da noi uno spirito sincretico di rapporto con la natura che può avere un influsso fortissimo sulla scelta dei luoghi "sacri". Fa anche pena pensare che proprio per queste credenze siano stati perseguitate ed addirittura distrutte tante persone ritenute ignoranti o pericolose in nome di una credenza diversa.
Hai fatto bene a scrivere questo romanzo storico perché è sempre utile anzi necessario tenere sveglia la mente della gente per metterla in guardia sulle conseguenze, più o meno violente, date da un fondamentalismo che non è sicuramente retaggio solo di un passato.
Complimenti anche per come è scritto.

2.
Da: Luisa Gretter e Antonello Adamoli
A: Paolo Curcu
Data: 15 luglio 2013 

Assieme ad Antonello voglio fare i complimenti a Fabio Chiocchetti, e anche a te per averlo pubblicato, per l'interessantissimo "I misteri del Cjaslir". Era da tempo che non leggevamo un libro così corretto, documentato e allo stesso tempo molto avvincente e anche attuale, visto il contenuto.
Antonello l'ha letto in due giorni e tu sai che è un tipo molto severo!

3.
Da: Fabio Lucchi
Data: 15 luglio 2013 

Mi chiamo Fabio Lucchi, "vacanziero" a Moena. Mi permetto di contattarLa attraverso il suo indirizzo mail istituzionale per farLe i complimenti per i "Misteri del Cjaslir" che sto leggendo con in questi giorni con passione e grande curiosità.
Il libro è davvero bello e fonte di suggestioni che vanno in varie direzioni, a partire da un lavoro filologico davvero appassionante anche per una persona non addetta ai lavori e di "passaggio" in Fassa: mi aiuterà a conoscere di più, meglio, diversamente i luoghi che da anni frequento in estate.
Interessantissime per me sono anche i collegamenti alle forme di sapere legate al dionisiaco vs apollineo che risuonano nelle pagine del romanzo e che mi riportano alle letture sull'argomento di Giorgio Colli al tempo del mio liceo...

4.
Da: Pino Loperfido 
Data: 16 luglio 2013

ho letto il romanzo in vacanza, durante alcune comode sedute sulla sdraio in spiaggia. Le atmosfere che sei riuscito a creare sono inquietanti e allo stesso tempo piene di fascino e di mistero. La ricerca dell'arcano, di ciò che viene prima mi ha sempre affascinato e il tuo libro ne è pieno. Tantissimi gli spunti e le notizie che non conoscevo. Altissima la necessità di recarmi immediatamente nei luoghi da te descritti, nella segretissima speranza di imbattermi in una Ursina o Dorothea che mi sveli il senso ultimo delle cose. Come scrivi ad un certo punto – citando non ricordo chi – possiamo solo indagare la verità ma non potremo mai possederla. Alla serenità però si può giungere attraverso strade precise e nemmeno troppo arcigne. Ecco qui...
Pino L 

PS: Ahimé ho trovato un paio di errorini, tra cui un Aristolete...

5.
Da: Fernanda Aldrighetti
Data: 24 luglio 2013

Ho avuto il piacere di leggere il suo libro e naturalmente volevo complimentarmi con lei perché l'ho trovato davvero bello, non ho altri aggettivi, credo che non sarò la sola che le ha fatto i complimenti ma io volevo comunque ringraziarla per averlo scritto. Ho letto la copia che ha lasciato in hotel e poi mi sono affrettata a comprarne una copia da tenere nella mia modesta biblioteca, l'ho comunque consigliato a un sacco di miei amici.
L'ho inserita anche nella mia pagina facebook, perché come detto prima e senza troppo ripetermi ho trovato la sua opera un lavoro straordinario, e poi credo che sia un bel riconoscimento per tutte le donne, o no?
La nostra terra è ricca di queste belle storie che si intrecciano fra sacro e profano, fra favola e realtà e quindi è importante che qualcuno ne scriva, perché attraverso il passato ci riconosceremo nel futuro.
Grazie e spero a presto.
Sua "ormai" affezionata lettrice.

Prumes comenc da man ladina

NB: ence a chisc n gran detalpai!


• 1.
Da: Verra, Roland Engelbert
Data: 10 giugno 2013

ei finà de liejer ti romann y muessi dì che l me à fat na gran imprescion. Cumplimënc per l fortl leterer, la tueda storica y la criatività che te es desmustrà.
N cont dl seuraviver de formes paganes te nosta valedes sons defin a una cun te.
Povester es mpue massa idealisà l vescul Zen, ajache savon che chiche à l pudëi ne possa nia vester n sant.
Dut l bon


2.
Da: Mazzel Anna Maria
Data: 24 giugno 2013

È let béleche dut te n fià to liber!!! Complimenc: enteressant, ben scrit e rich de idees e elemenc storics… L'é conseià a muie de jent e spere proprio che l vegne let con la gaissa e l'interesc che l'à descedà te me.
De bie saluc Anna

P.S. che chesta fiochèda anché 24 de jugn sibie ruèda per via de vèlch strionarìa?

3.
Da: Lifeline Dolomites
Data: 24 luglio 2013 09.18.4

Picol pensie sun to liber
Te trei dis é let to liber con gran piajer, curiosità, più jie inant e più el me ciapaa ite, el me fajea jir ite te chel sentir coscì cognosciù, coscì proà tante oute canche se rua te valch post olache tu te sente bel apontin “desché tal gremen de la Mare”.
No é nesciuna competenza par dar en giudizie ne storich, ne stilistich, ma posse te dir segur che é proà en sentiment fon, en retroar parole, esprescion e sensazion cognosciude, desché de partegnuda, de far part de chela sensibilità e de chel sentir fon e douc.
Fosc parché tei momenc più riesc, de dolor e de gran padiment mie cher à troà pasc, el se à lascià ciapar par man da la Mare tera, dal bosch, da nosce mont desché te en braciacol de sostegn, de gran aiut e de corage par jir inant.
Talpai de cher

Renata



4.
Da: Rut Bernardi
Data: 1 settembre 2013

l Te scrij una di 25 letëures de Ti liber nuef.
Dan 10 dis me l à Anna purtà y ntan l'ena passeda l ei liet tres te un n trat! Te feje i gran cumplimënc!!! A mi me à dantaldut plajù la pertes cuntedes, "storiches", di prim tëmps y la ancuntedes for inò di doi cumpanies Zen y Stauber! Chëla pertes me sà scrites propi scialdi, scialdi bën!
De gra per l liber y de biei saluc da

Rut Bernardi