UN LIBRO, UNA STORIA: Recensioni, commenti, eventi e curiosità

domenica 19 gennaio 2014

Torniamo a parlare di “streghe”

Ovvero: Gostanza e Dorothea, ree confesse

• Che la tortura sia stata una vera e propria “fabbrica di streghe”, come scrisse il gesuita Friederick von Spee nella sua “Cautio Criminalis” (1630) è un fatto incontestabile: a suo dire, nessuna delle ree confesse da lui stesso assistite fino al supplizio aveva davvero commesso i crimini di cui erano accusate. Per noi – oggi – è facile crederlo, ma a quei tempi era tutta un’altra cosa.
Chi volesse farsi un idea di come funzionavano questi processi (senza doversi leggere pagine e pagine di processi verbali) può vedere il film di Paolo Benvenuti “Gostanza da Libbiano” (2000), segnalatoci da Laiza Francato durante la presentazione dei “Misteri” a Bolzano. Lo si trova anche in streaming: 
http://www.youtube.com/watch?v=OXl_tHibQ4I 















È un film molto emozionante, girato e recitato benissimo, con una straordinaria Lucia Poli nei panni della protagonista, rigorosamente basato sui documenti pubblicati da Franco Cardini nel libro “Gostanza, la strega di San Miniato” (1989), dove si racconta di un caso accaduto nella diocesi di Lucca nel 1594.
Nessuna meraviglia se molte di quelle donne sottoposte al “tormento della fune” prima o poi capitolavano: i “tiri di corda”, magari con l’aggiunta di pesi di varia misura, avevano effetti devastanti, e in più erano “puliti”, non davano versamento di sangue. Oltre alla paura di altro straziante dolore, a fiaccare anche l’ultima resistenza interveniva la violenza psicologica: la minaccia della dannazione eterna.

Anche nei processi fassani troviamo gli stessi ingredienti. La cosa più sorprendente è il fatto che le confessioni sono sempre identiche, o quantomeno ricalcano sostanzialmente lo stesso schema: alternano ammissioni e ritrattazioni, finché a un certo punto si arrendono e cominciano a raccontare e raccontare... 
Come Gostanza, anche Dorothea (dopo cinque interrogatori con tortura) finisce per ammettere ogni sorta di nefandezze inverosimili, compresa l’uccisione di persone che poi risultano vive e vegete; riferisce a sé persino certe sequenze narrative sulle streghe proprie della tradizione popolare, giunte fino ai nostri giorni. La differenza è che a Gostanza andò bene: l’inquisitore di Firenze, Dionigi di Castrocciaro la fa rimettere in libertà, punita solo con l’esilio, perché «alla fine s’è veduto che cotesta povera vecchia tutto ha detto per tormenti e non è vero niente».

A quel tempo ormai la Chiesa tornava a dubitare della realtà della stregoneria, ritenendo al massimo quelle donne portatrici di superstizioni disdicevoli e credenze fallaci, come ai tempi del cardinal Cusano. Invece, come si racconta nei “Misteri”, nelle Terre Imperiali i processi per stregoneria erano affidati non più alla Santa Inquisizione, bensì ai tribunali civili, e qui i giudici “laici” non si facevano tanti scrupoli morali o dottrinali: più che il peccato di eresia, quelli intendevano perseguire il crimine contro l’ordine sociale...
Insomma quello di Gostanza fu caso più unico che raro: altrove sarebbe bastato molto meno per mandarla al rogo, anche in tempi successivi. In Fassa ad esempio, furono scagionate soltanto quelle che resistettero eroicamente alle torture, senza ammettere alcun crimine, magari lacrimando copiosamente, a dimostrazione che non era il Demonio a renderle insensibili al dolore...

Ma come la mettiamo con quelle che confessavano di essere streghe ancor prima di essere torturate? è accaduto anche in Fassa: ed è proprio da qui che si diparte l’infinita catena delle accuse contro le presunte complici... In effetti quella delle confessioni spontanee è una cosa sconcertante, intorno alla quale mi sono (inutilmente) arrovellato.

In ogni caso sembra di poter dire che le confessioni (spontanee o forzate) non siano affatto invenzioni improvvisate individualmente, ma racconti declinati sulla base di un patrimonio di credenze comune a larghi strati della popolazione, per un arco spazio-temporale assai ampio. A meno che... quelle che confessavano spontaneamente non fossero streghe per davvero, e il Sabba una realtà, non un sogno o una proiezione mentale collettiva. Voi che ne dite?

martedì 7 gennaio 2014

La Vivana scacciata

Ovvero: terza variante di uno stesso mito














• Qual è la colpa che provoca la desertificazione dell’alta montagna? Nel caso del Salvan sembrerebbe essere l’ingordigia degli uomini, i quali non si accontentano del suo dono straordinario (il segreto per trasformare il latte in formaggio) ma pretendono anche il possesso dei pascoli che il lavoro del pastore ha reso produttivi. 

Casi analoghi sembrano essere quelli narrati nella contìa della Marmolada, o (con rivestimento “cavalleresco”) in quella relativa al mitico “Giardino delle Rose”: ghiaccio e roccia al posto di una natura rigogliosa, come punizione per una regola infranta. Nella leggenda del Salvan, tuttavia, oltre la dimensione strettamente etica sembra di poter intuire, su un piano storico-sociologico, il riflesso di un conflitto epocale tra pastori e contadini. Insomma una questione fra maschi. Nella “Canzun da Sontga Margariata” invece il nume dell’alpe ha sembianze femminili, proprio come nella leggenda della “Vivana scacciata”. 

«Sull’alpe di Pozza un pastorello rifiuta il cibo ad una Vivana e la scaccia col cane, scambiandola per una Bregostana, creatura temibile e malvagia. La punizione è crudele: “No plu pabol per te t’aras”, non avrai più cibo che possa saziarti e sarai un “selvatico” ridotto a pelle e ossa, per la fame incessante». 

La regressione allo stato di natura sembrerebbe una sorta di contrappasso per aver negato il cibo al prossimo. Ma anche stavolta dietro la “morale della favola” sembra nascondersi ben altro: in fondo si è trattato di un equivoco, causato dalla paura, non da malvagità o scarsa carità cristiana. La punizione sembra eccessiva...
Infatti, a mio avviso, non è per questo che il giovane pastore viene punito, ma per il fatto di non aver riconosciuto e onorato la “Dea dei boschi e delle rocce”, colei che può elargire l’abbondanza e la può negare. Del resto, come si fa a scambiare una Vivana per una Bregostana? Bisogna proprio esser ciechi, o sciocchi... 

Allo stesso modo il Paster petschen del canto grigionese viene punito non tanto per aver scoperto la “femminilità” dell’essere che si nascondeva sotto le vesti del mandriano, ma per non averne riconosciuto la “divinità”: rifiutando i doni prodigiosi della Dea egli si dimostra cieco e sciocco quanto il collega fassano.

Forse non è del tutto accidentale il fatto che la Dea, prima del compimento del suo tempo (sette anni meno 15 giorni), riveli al pastorello la sua vera natura, mostrando “il suo bel seno bianco”: non è forse questo il simbolo della vita e della fecondità? Forse allora davvero l’immagine scabrosa delle Tre Sante Vergini di Maranza, quella con la figura centrale a seno scoperto e braccia aperte, non rappresenta affatto un martirio, bensì una vera e propria “teofania” femminile...

FREYJA
La conseguenza per questo mancato riconoscimento è terribile: in entrambi i casi l’abbandono del mondo umano da parte della divinità benefica comporta sterilità, fame, carestia e desolazione.

A questo punto i dettagli diventano importanti. In una delle versioni fassane la Vivana torna insieme a due compagne: si forma quindi una TRIADE di entità femminili, le quali prima di annunciare il castigo salgono su un’altura e cantano il loro lamento:

“se jent saessa chi noi sion
che ton, aur, amor te man aon
scaré col cian no fossaron”



Già. «Se gli uomini sapessero chi noi siamo, se sapessero che abbiamo il potere di donare salute, ricchezza e amore, non saremmo scacciate col cane». Così cantano le Vivane... http://www.youtube.com/watch?v=6l_Mm_vALcA&feature=em-upload_owner

(De Rossi, Fiabe e leggende della Val di Fassa, 1984, p. 154 e segg. Per inciso: da qui si diparte il fil rouge che attraversa per intero il romanzo iterando il motivo dei “doni delle vivane”. Uno sviluppo letterario del tema compare anche in uno dei Fragmenta, il n. 9, intitolato “Lament”. Vedi anche il Post di settembre: “La voce delle Vivane”) 

Anche “Sontga Margriata” dopo aver punito con la morte il pastorello canta dall’alto di un poggio il suo addio al mondo umano (ed anche questo è un dettaglio che accomuna le due leggende). È un canto triste e dolcissimo, pieno di vezzeggiativi e di espressioni affettuose che sembrano voler attenuare le conseguenze devastanti dell’atto fatale per l’equilibrio dell’alpeggio: “O ti funtaunetta... o ti plaunchetta... ah, mia buna jarva...”. Cose e animali a loro volta piangono disperatamente il commiato della Dea, la quale evidentemente non se ne va dall’alpe per dispetto, ma ne è allontanata dalla superbia e dalla cecità umana: come nella leggenda fassana.

Già il vescovo Christian Caminada ipotizzava che sotto le vesti di questa improbabile “Santa Margherita” si nascondesse la dea germanica Freyja, dea dell’amore e della fertilità. Più recentemente Karen P. Smith (citata nel Post precedente) spiega come la figura della Santa Vergine e Martire di Antiochia (la cui esistenza storica è fortemente discutibile) possa essere interpretata come il risultato di una sovrapposizione di elementi di diversa origine: l’associazione con il Drago la avvicinerebbe alla figura della “donna-serpente”, entità liminare mediatrice tra il mondo umano e quello ultraterreno (come Melusina), mentre l’attributo di protettrice delle partorienti (cosa strana per una vergine) la qualificherebbe come dea della fecondità e del ciclo vita-morte: così nella cantica grigionese essa ha il potere di generare la vita dalla terra, ma al tempo stesso produce il ritorno di un essere vivente nel grembo della terra. 

Ma non basta: anche Santa Margherita si fa in TRE, proprio come la Vivana della leggenda fassana. Nel Medioevo, osserva Karen Smith, Margherita è spesso parte di una TRIADE insieme con Barbara e Caterina, e talvolta al posto di Barbara troviamo Giuliana o Dorotea
Ecco dunque ancora una volta le “nostre” Sante Vergini che giocano a “Tria mulinello” (v. IMMAGINI, n. 7), epifania variabile della Dea triforme. Le conosciamo bene, noi che con Peter Stauber indaghiamo i “Misteri del Cjaslir”: manca solo Sant’Orsola...