UN LIBRO, UNA STORIA: Recensioni, commenti, eventi e curiosità

sabato 31 maggio 2014

Una voce dal Friuli

I Misteris dal Cjaslir secondo Renzo Balzan

• Sul periodico “LADINS dal FRIÛL”, organo della benemerita “Union Scritôrs Furlans” (oggi in versione online: http://ladinsdalfriul.blogspot.it) è comparsa di recente una bella recensione, scritta in occasione del Premio Letterario “Mario Rigoni Stern – 2014”, assegnato per l'appunto al friulano Mauro Corona per l'opera “La voce degli uomini freddi” (ed. Mondadori). L'autore (che si firma con lo pseudonimo di edelweiss), così si esprime in merito ai "Misteri del Cjaslir" (segue la traduzione italiana):


Sfont storic di chest drame a son i procès cuintri lis striis che si davuelzerin a Brixen tal Cinccent e tal Sîscent, cuant che a forin torturadis, tumiadis e copadis brusantlis vivis centenârs di biadis feminis, ma ancje oms e fruts, ducj naturalmentri inocents. Cussì il lavôr di Chiocchetti al devente une sorte di denunzie cuintri l’oscurantisim culturâl, i prejudizis, lis superstizions e il fanatisims religjôs che al viôt striis par ogni dontri: “Cetante int no ise mai stade copade tal non di Diu”. 
Al è achì che forsit al sta il plui grant merit di chest libri. Ma al è purpûr un cjant liric al “Amôr principi cosmic che al travane ogni cjosse e dut al cjape dentri intune”.
(...) Dut câs lis pagjinis plui poetichis dal volum a son cence altri i “Fragmenta” che a precedin  ognidun dai cutuardis cjapitui: riflessions, cuadris a se stant di grande spiritualitât, a margjin de conte, scrits cuntun ladin "fascian" de intonazion sclete e plene di melodie.
In conclusion la opare di Fabio Chioccetti e à ducj i contignûts par fânti un libri di sigûr agradiment de  bande dal public dai letôrs: biele scriture, plane e vualive, misteri, culture, storie, religjon. Ma ancje une ocasion par podê cognossi miôr il “mont ladin”, de bande di cui che ladin nol è. Un libri cussì al zove cetant ae cause ladine, e a Fabio i va partant un graziis di cûr! (edelweiß)

* * *
Sfondo storico di questo romanzo sono i processi contro le streghe che si svolsero a Bressanone nel Cinque e Seicento, allorché furono torturate, uccise e arse vive centinaia di povere donne, ma anche uomini e bambini, tutti ovviamente innocenti. Così il lavoro di Chiocchetti diventa una sorta di denunzia contro l'oscurantismo culturale, i pregiudizi, le superstizioni ed il fanatismo religioso che vede streghe per ogni dove: “Quanta morte è stata perpetrata nel nome di Dio”.
Qui forse sta il maggior merito di questo libro. Ma esso è al tempo stesso un canto lirico all'Amore, “principio cosmico che pervade ogni cosa ed ogni cosa connette al Tutto”.
(...) In ogni caso le pagine più poetiche del libro sono senz'altro i "Fragmenta" che precedono ognuno dei 14 capitoli: riflessioni, quadri a sé stanti di grande spiritualità, a margine del racconto, scritti in un ladino fassano di intonazione genuina e piena di melodia.
In conclusione l'opera di Fabio Chiocchetti possiede tutti i contenuti per essere un libro di sicuro gradimento da parte del pubblico dei lettori: bella scrittura, piana e uniforme, mistero, cultura, storia, religione. Ma anche una occasione per poter conoscere meglio il “mondo ladino”, da parte di coloro che ladini non sono. Un libro così giova moltissimo alla causa ladina, e a Fabio vada pertanto un grazie di cuore. 

LADINS dal FRIÛL, Anade ( XVII ) n. 5 Mai 2014, pag 6.

Renzo Balzan è scrittore e poeta friulano molto apprezzato, autore tra l'altro di pregevoli raccolte di versi, tra cui "Poesiis e Liendis de Tiere di Cjargne" (Tumiec 2000).  Inoltre è il fondatore del periodico “Ladins dal Friûl”, creato per mantenere i contatti con i popoli ladini delle Alpi.

domenica 27 aprile 2014

Glorenza, antica terra romancia

 Ovvero: i segni della "donna misteriosa"


Glorenza, città murata posta a presidio della Val Monastero (Müstair), a sua volta porta del Canton Grigioni, Confederazione Elvetica. Come già il monastero benedettino di Monte Maria (Marienberg), Glorenza agli inizi del ’600 per volere degli Asburgo divenne centro culturale e amministrativo da cui promanò la germanizzazione dell’Alta Val Venosta, allora ancora per larga parte di lingua romancia. Qui è ambientata la prima parte del romanzo, incentrata sull’infanzia di Peter Stauber, originario del villaggio di Burgais e cresciuto dai monaci dell’Abbazia.
Sulla piazza di questa città si svolge l’episodio che segnerà il suo destino: l’incontro con l’Orsa e con la Donna misteriosa venuta di lontano al seguito di una compagnia di zingari musici e saltimbanchi, entrati in città attraverso la Porta Sluderno...

Aur tia ment, osserva mi segnes e ciala da ite de te.

“Apri la tua mente, osserva i miei segni e guarda dentro di te”. Sono queste le parole che Peter e Daniel ascolteranno in circostanze analoghe, nello stesso preciso lasso temporale, ma in luoghi distinti.

Peter tornerà nei luoghi della sua infanzia, e seguendo quei segni giungerà sulla collina di Tarces, che domina la valle e la città. Qui scoprirà una chiesetta dedicata a San Vito, proprio come sul Cjaslir e sull’altura di Maranza. Anche qui si conservava una tavola delle Tre Sante Vergini, Aubet Cubet e Gwere.

Strana coincidenza, non è vero? 


Ma non è tutto. Ai piedi di questa collina sorge un’altra chiesetta, dove tutt’oggi campeggia un gigantesco San Cristoforo. Osservate bene quest’immagine: che ve ne sembra? che sia del tutto casuale (o frutto di una immaginazione perversa) quella strana forma fallica che fuoriesce dalla saccoccia del Santo?

In ogni caso è bene sapere che quella collina era un luogo di culto frequentato fin dall'Età del Bronzo, sede di riti femminili di fecondità: tra i reperti più interessanti si ricorda un fallo istoriato in corno.

Che tutto sia davvero casuale?

D'accordo, probabilmente sono solo fantasie: ma si tratta pur sempre di un romanzo...
A voi la parola!

giovedì 3 aprile 2014

Nel ricordo di Mario Rigoni Stern

Un reportage di Lucia Gross
 

Il Palazzo dei Congressi di Riva del Garda era pieno zeppo, sabato 29 marzo, per la consegna del Premio “Mario Rigoni Stern” per la letteratura multilingue delle Alpi. Lo sguardo fiero ma sereno dello scrittore di Asiago campeggiava dal grande ritratto posto accanto al palco, mentre le parole tratte dai suoi scritti risuonavano attraverso la voce di Bepi de Marzi, alternate alle musiche eseguite con bravura dagli allievi del Conservatorio di Trento e Riva. 

Il premio è andato al romanzo “La voce degli uomini freddi” di Mauro Corona (Mondadori), un autore famoso, che ha manifestato stima e affetto per Mario Rigoni Stern. Secondo il coordinatore della giuria Graziano Riccadonna, questo riconoscimento rappresenta anche una sorta di “premio alla carriera” per lo scrittore di Erto, che a suo stesso dire ha trovato nella letteratura la strada del riscatto da una “vita scellerata”, condizionata da alcool e iracondia. 

“Quanto stasera tornerò a casa e mi guarderò nello specchio, mi dirò che forse ce l’ho fatta ad uscire dall’inferno”, ha commentato Corona. 









Oltre ad assegnare il prestigioso riconoscimento a Mauro Corona, la giuria ha voluto segnalare altre due opere considerate di particolar valore per la considerazione che questo premio rivolge al multilinguismo. Tra i partecipanti vi erano anche degli autori ladini, e proprio l’opera di un ladino, Fabio Chiocchetti, ha ottenuto la segnalazione della giuria (accanto al romanzo in lingua tedesca “Der Nachlass Domenico Minettis” de Dietmar Gnedt). 

Il suo romanzo storico “I Misteri del Cjaslir” è stato apprezzato per la capacità di dare, attraverso la storia di un vescovo e quella dei processi per stregoneria in Fassa, un quadro articolato della storia del popolo nei secoli passati, fra leggende, credenze e tradizioni. 
Fabio Chiocchetti, che ha ricevuto il riconoscimento dalle mani dello scrittore e giornalista Paolo Rumiz, si è detto molto contento del fatto che la lingua ladina possa trovare attenzione anche fuori dai propri confini. 

Nella sua opera infatti il ladino – e un ladino molto curato e di notevole forza letteraria, viene usato – in contrapposizione con l’italiano dotto proprio degli ambienti culturali del ’600 – per dar voce al pensiero e al dolore delle donne della nostra terra, donne che avevano un rapporto molto profondo con la natura e i suoi segreti. 

(tradotto in sintesi dal ladino, “La Usc di Ladins” n. 14/ 2014)

domenica 23 marzo 2014

Libri, lingue e minoranze

Molto più di una recensione

• C’è un ritornello sempre di moda quando si affrontano temi culturali nel nostro paese: in Italia si legge poco, pochissimo, niente. Forse sarà vero, non mi intendo di statistica, ma poi vedo librerie e libri un po’ ovunque e la cosa mi conforta.
Io non sono così snob da considerare il libro oggetto sacro e intangibile tale da non poter fare la sua bella figura accanto al banco degli affettati, considero però un valore aggiunto la mano saggia del libraio, e bene prezioso la sua amicizia. Non sono nemmeno così ingenuo da non sapere cosa si legga oggi in Italia, ma sono convinto che ognuno abbia diritto al proprio libro, qualunque esso sia.
 (...)


Oggi voglio scrivere di un libro non facile ma bello, oppure se preferite, bello perché non facile, un libro che ho incontrato anche al supermercato e che in questi giorni ha avuto la rara ventura di essere ristampato; per un libro di tale fatta pubblicato da un piccolo editore è un sicuro avvenimento. Il libro è: I Misteri del Cjaslir scritto da Fabio Chiocchetti edito da Curcu e Genovese.
Un romanzo che riguarda da vicino le minoranze, ogni minoranza! Riguarda le minoranze linguistiche della nostra regione, perché Fabio Chiocchetti da fine cultore della sua lingua madre Ladina ricama la sua scrittura con pagine in ladino dalla forza inconsueta che insegna a tutti noi scrittori di minoranza quanto le piccole lingue possano essere strumento di grande letteratura. Certo l’italiano rimane strumento per raggiungere un pubblico più ampio, ma se accanto a quello riusciamo a non dimenticare mai la nostra Lingua Madre possiamo, come bene ha fatto Chiocchetti, raggiungere due obbiettivi ugualmente importanti: farci leggere da più persone e contemporaneamente fare apprezzare, con una lingua più vicina all’anima, quanto di profondo e complesso ci sia in una minoranza etnico linguistica e farne capire l’importanza per ognuno anche se appartenente alle cosiddette maggioranze.

Riguarda le minoranze in genere, perché il romanzo racconta di un tempo strano della storia, un tempo in cui si apriva la modernità e per contrasto o forse invece per conseguenza, si bruciavano sul rogo, con tutta l’ufficialità possibile, persone accusate, non già di delitti orrendi, ma di cose che nel buio del medioevo più profondo venivano considerate fantasie di povere donne, di Minoranze. 
Già, I Misteri del Cjaslir si occupa in apparenza di streghe e inquisitori, di vescovi e di gente del popolo, ma a mio avviso si occupa di quello che l’autore sottotraccia ci indica come una minoranza, una minoranza culturale, religiosa e linguistica, una minoranza che risulta insopportabile alla furia omologatrice della modernità nascente. Una minoranza sotto scacco, le streghe! Una minoranza, la cui lingua risultava incomprensibile agli inquisitori per la distanza invalicabile che separava il suo mondo da quello dei chierici. Una minoranza dentro lo stesso popolo minuto che nutriva nei confronti del fenomeno un comportamento ambivalente, che diventa sempre più intollerante man mano che la cosiddetta modernità prende piede. 
Oggi siamo di fronte ad altre e altrettanto potenti forze omologatrici, riflettere sul mondo delle streghe con la competenza dello scrittore di Moena non può che essere riflessione sullo stato delle nostre minoranze tollerate fino ieri, domani con la scusa economica spazzate via dalla storia. 

Andrea Nicolussi Golo

(PS: l’immagine qui sopra riprodotta è un’opera dell'artista fiemmese Mariano Vasselai)

giovedì 13 marzo 2014

Uno strano Salvan

Ovvero: un'altra divinità con tre volti

Di ritorno da Bressanone, dove nei giorni scorsi ho avuto modo di presentare il romanzo, eccovi l'immagine inquietante del "Salvan tricipite" che sorprende il buon Peter Stauber per la sua inopinata similitudine con il Padreterno dipinto sulla volta del santuario di Santa Giuliana.
Ve la ripropongo insieme al passo che lo riguarda...



Intanto, scendendo da porta San Michele dopo aver sbrigato le faccende, eravamo ormai giunti all’incrocio con i Portici Minori. In quel mentre alzai lo sguardo e di colpo mi fermai impietrito:
«Eccolo, è là...» mi sorpresi a sussurrare mentre fissavo immobile la figura lignea che adornava l’angolo di un edificio che si ergeva proprio di fronte a noi, prospiciente la Casa del Giudizio.
Pellegrin seguì il mio sguardo, poi disse rassicurante:
«Quello è il Salvan, l’Uomo Selvatico, non c’entra nulla...»
«Ma... ha tre volti!»
«Beh sì, ma non ha nulla a che vedere con Sentovit.»
«Ne sei proprio sicuro?...»
«Certo, è un personaggio di cui si narrano leggende, storie fantastiche, le conoscono anche i bambini...»
Le conoscevo anch’io. Erano comuni nelle valli alpine, ed erano più o meno le stesse. (...)

Non so per quanto tempo rimasi assorto in questi pensieri. Pellegrin mi scosse:
«Stai bene, Peter?»
«Ma ha tre volti...», ripetei ancora frastornato.
«Già, è strano in effetti, non ci ho mai fatto caso. Non ne so nulla, chiederò in giro, se la cosa ti interessa...»
Lo ringraziai e tornammo alla locanda. Mentre ci veniva servito il solito pasto frugale, chiedemmo all’oste notizie su quella strana effige.
«Ah sì, der Wilde Mann, l’Uomo selvatico. È un po’ il portafortuna della città, per chi ci crede... Dicono che se lo fissate a lungo, quello si mette a sputar monete d’oro da ognuna delle sue tre bocche...»
«Certo!» aggiunse un avventore che aveva seguito la conversazione da un tavolo vicino, «ma solo il Venerdì Santo, quando suonano le campane!...» Ovvero: mai. Al ché gli astanti proruppero in un’unica sonora sghignazzata. A me sembrò peraltro che dietro tanto scetticismo affiorasse ancora il ricordo di un’antica divinità benefica, dispensatrice di ricchezza e di fortuna, un tempo degnata di maggior rispetto...

Su questo tema, vedi anche: TRIADI DIVINE  E DIVINITÀ TRIFORMI, dicembre 2013. 

venerdì 21 febbraio 2014

A proposito di Gostanza

Il pensiero di Luciana Battan, scrittrice

• Dionigi di Castrocciaro la fa rimettere in libertà, punita solo con l’esilio, perché «alla fine s’è veduto che cotesta povera vecchia tutto ha detto per tormenti e non è vero niente». Ecco estrapolo questa citazione come emblematica di quel tempo e di quelle "efferatezze" che trovano secondo me una minima giustificazione nel loro tempo storico ancora in preda a superstizioni e credenze nei presunti poteri sovrannaturali e quindi demoniaci di certe donne. Il giudice qui citato penso sia eccezione di quel pensare colpevoli donne soprattutto del popolo, nonostante fosse alquanto palese l'improbabilità di quanto affermavano sotto tortura.
Ciò che allibisce anche me, è vedere come tutte le confessioni, estorte sotto tortura, fossero uguali e, nel corso della stesura del mio romanzo, mi sono chiesta molte volte il perché. Sono arrivata a ipotizzare due idee:
- alle accusate venivano lette le deposizioni e le denunce fatte dalle donne precedentemente interrogate, quindi gioco forza bastava semplicemente ripetere, confermare e/o arricchire quanto era già stato detto
- realmente queste donne avevano una certa "pratica conoscitiva" di rimedi per curare o maledire che si rifacevano a un'antichissima cultura popolare, ancora molto viva e praticata.

NB: Luciana Battan, autrice di romanzi storici, si è occupata tra l'altro anche dei processi per stregoneria di Nogaredo (1646-47), una vicenda assai vicina nel tempo e nello spazio ai processi di Fassa. Dopo la recente pubblicazione di "Rosso riflesso", attendiamo anche l'uscita di questa sua ultima fatica, a proposito della quale mi scrive: «Ho intrapreso questo lavoro nel 2011, poi sospeso per oggettiva difficoltà sia nel reperire le fonti, sia nel riuscire a trovare un registro linguistico adatto al linguaggio del tempo. Finché ho avuto la fortuna di trovare la trascrizione dalle filze degli atti processuali fatta dal Dandolo nel 1856 e pubblicata». Il che la dice già lunga sulla serietà con cui l'Autrice ha affrontato l'argomento... (fch)
E poi ancora:
«Trovare le parole, le parole delle condannate è stato per me un colpo al cuore. E non ho più indugiato. Ho voluto che le loro parole arrivassero fino a noi, e che ancora una volta ci mostrassero l'assurdità della Storia che si accanisce contro essere miseri in ogni senso. La crudeltà della Storia verso i poveri e gli emarginati. E alla fine ho pensato che la Storia non fa altro che ripetersi, nelle sue brutture e nei suoi drammi. Un'opera che comunque considero ancora nella prima stesura».

martedì 11 febbraio 2014

Prima ristampa

Comunicato stampa dellUnion di Ladins

• Evento letterario dell’estate 2013, "I Misteri del Cjaslir" ha visto in pochi mesi esaurita la prima tiratura, tanto che l’Editore Curcu & Genovese ne ha già disposto la ristampa, a conferma dell’apprezzamento che l’opera ha incontrato non solo tra i lettori locali e tra i visitatori delle nostre valli, ma anche presso un pubblico più vasto.
Nel frattempo, un crescente interesse per le tematiche trattate nel romanzo sta suscitando il blog di discussione e approfondimento aperto dall’Autore, che anche grazie ai contributi di Cesare Poppi, Guerrino Ermacora, Giorgio Jellici, Andrea Nicolussi Golo e di altri commentatori, in pochi mesi ha già superato i 3600 contatti.

Per iniziativa dell’Associazione “heimat Brixen / Bressanone / Persenon”, il libro sarà presentato prossimamente nell’antica Città Vescovile teatro delle vicende narrate nel romanzo. L’evento si terrà l’11 marzo, ore 20.00, presso il Dom Café, accanto alla Parrocchiale S. Michele (Pfarrplatz 3 / Piazza Parrocchia 3), non lontano dal luogo dove fu rinchiusa Dorothea de Freina.

Nella figura qui sopra, il PalazzoVescovile (n. 3), che accolse il troppo breve episcopato di Daniel Zen, e la piazza dove furono eseguite le pubbliche esecuzioni delle persone di Fassa condannate per stregoneria  (n. 13).

L’Union di Ladins ha sostenuto fin dall’inizio quest’operazione editoriale, non solo per l’importanza che il romanzo riveste per la storia e la cultura di Fassa, ma anche per il fatto che i proventi delle vendite sono state destinate dall’Autore al restauro del ritratto di Daniel Zen, protagonista del romanzo, primo e unico Principe Vescovo ladino nella storia millenaria del principato di Bressanone (1584-1628).

Finora è stato possibile raccogliere una somma pari a ca. 1450 euro, ma dato il precario stato di conservazione per coprire interamente le spese di restauro ne servono oltre 3.000,00...


Facciamo un appello a tutti i ladini, e agli amici dei ladini, affinché l’opera possa presto essere collocata nel Museo Ladino di Fassa, restituita così memoria e alla comunità.

Union di Ladins de Fascia

Per contatti e/o informazioni:
union@ladinsdefascia.it
tel. 0462 764545

domenica 19 gennaio 2014

Torniamo a parlare di “streghe”

Ovvero: Gostanza e Dorothea, ree confesse

• Che la tortura sia stata una vera e propria “fabbrica di streghe”, come scrisse il gesuita Friederick von Spee nella sua “Cautio Criminalis” (1630) è un fatto incontestabile: a suo dire, nessuna delle ree confesse da lui stesso assistite fino al supplizio aveva davvero commesso i crimini di cui erano accusate. Per noi – oggi – è facile crederlo, ma a quei tempi era tutta un’altra cosa.
Chi volesse farsi un idea di come funzionavano questi processi (senza doversi leggere pagine e pagine di processi verbali) può vedere il film di Paolo Benvenuti “Gostanza da Libbiano” (2000), segnalatoci da Laiza Francato durante la presentazione dei “Misteri” a Bolzano. Lo si trova anche in streaming: 
http://www.youtube.com/watch?v=OXl_tHibQ4I 















È un film molto emozionante, girato e recitato benissimo, con una straordinaria Lucia Poli nei panni della protagonista, rigorosamente basato sui documenti pubblicati da Franco Cardini nel libro “Gostanza, la strega di San Miniato” (1989), dove si racconta di un caso accaduto nella diocesi di Lucca nel 1594.
Nessuna meraviglia se molte di quelle donne sottoposte al “tormento della fune” prima o poi capitolavano: i “tiri di corda”, magari con l’aggiunta di pesi di varia misura, avevano effetti devastanti, e in più erano “puliti”, non davano versamento di sangue. Oltre alla paura di altro straziante dolore, a fiaccare anche l’ultima resistenza interveniva la violenza psicologica: la minaccia della dannazione eterna.

Anche nei processi fassani troviamo gli stessi ingredienti. La cosa più sorprendente è il fatto che le confessioni sono sempre identiche, o quantomeno ricalcano sostanzialmente lo stesso schema: alternano ammissioni e ritrattazioni, finché a un certo punto si arrendono e cominciano a raccontare e raccontare... 
Come Gostanza, anche Dorothea (dopo cinque interrogatori con tortura) finisce per ammettere ogni sorta di nefandezze inverosimili, compresa l’uccisione di persone che poi risultano vive e vegete; riferisce a sé persino certe sequenze narrative sulle streghe proprie della tradizione popolare, giunte fino ai nostri giorni. La differenza è che a Gostanza andò bene: l’inquisitore di Firenze, Dionigi di Castrocciaro la fa rimettere in libertà, punita solo con l’esilio, perché «alla fine s’è veduto che cotesta povera vecchia tutto ha detto per tormenti e non è vero niente».

A quel tempo ormai la Chiesa tornava a dubitare della realtà della stregoneria, ritenendo al massimo quelle donne portatrici di superstizioni disdicevoli e credenze fallaci, come ai tempi del cardinal Cusano. Invece, come si racconta nei “Misteri”, nelle Terre Imperiali i processi per stregoneria erano affidati non più alla Santa Inquisizione, bensì ai tribunali civili, e qui i giudici “laici” non si facevano tanti scrupoli morali o dottrinali: più che il peccato di eresia, quelli intendevano perseguire il crimine contro l’ordine sociale...
Insomma quello di Gostanza fu caso più unico che raro: altrove sarebbe bastato molto meno per mandarla al rogo, anche in tempi successivi. In Fassa ad esempio, furono scagionate soltanto quelle che resistettero eroicamente alle torture, senza ammettere alcun crimine, magari lacrimando copiosamente, a dimostrazione che non era il Demonio a renderle insensibili al dolore...

Ma come la mettiamo con quelle che confessavano di essere streghe ancor prima di essere torturate? è accaduto anche in Fassa: ed è proprio da qui che si diparte l’infinita catena delle accuse contro le presunte complici... In effetti quella delle confessioni spontanee è una cosa sconcertante, intorno alla quale mi sono (inutilmente) arrovellato.

In ogni caso sembra di poter dire che le confessioni (spontanee o forzate) non siano affatto invenzioni improvvisate individualmente, ma racconti declinati sulla base di un patrimonio di credenze comune a larghi strati della popolazione, per un arco spazio-temporale assai ampio. A meno che... quelle che confessavano spontaneamente non fossero streghe per davvero, e il Sabba una realtà, non un sogno o una proiezione mentale collettiva. Voi che ne dite?

martedì 7 gennaio 2014

La Vivana scacciata

Ovvero: terza variante di uno stesso mito














• Qual è la colpa che provoca la desertificazione dell’alta montagna? Nel caso del Salvan sembrerebbe essere l’ingordigia degli uomini, i quali non si accontentano del suo dono straordinario (il segreto per trasformare il latte in formaggio) ma pretendono anche il possesso dei pascoli che il lavoro del pastore ha reso produttivi. 

Casi analoghi sembrano essere quelli narrati nella contìa della Marmolada, o (con rivestimento “cavalleresco”) in quella relativa al mitico “Giardino delle Rose”: ghiaccio e roccia al posto di una natura rigogliosa, come punizione per una regola infranta. Nella leggenda del Salvan, tuttavia, oltre la dimensione strettamente etica sembra di poter intuire, su un piano storico-sociologico, il riflesso di un conflitto epocale tra pastori e contadini. Insomma una questione fra maschi. Nella “Canzun da Sontga Margariata” invece il nume dell’alpe ha sembianze femminili, proprio come nella leggenda della “Vivana scacciata”. 

«Sull’alpe di Pozza un pastorello rifiuta il cibo ad una Vivana e la scaccia col cane, scambiandola per una Bregostana, creatura temibile e malvagia. La punizione è crudele: “No plu pabol per te t’aras”, non avrai più cibo che possa saziarti e sarai un “selvatico” ridotto a pelle e ossa, per la fame incessante». 

La regressione allo stato di natura sembrerebbe una sorta di contrappasso per aver negato il cibo al prossimo. Ma anche stavolta dietro la “morale della favola” sembra nascondersi ben altro: in fondo si è trattato di un equivoco, causato dalla paura, non da malvagità o scarsa carità cristiana. La punizione sembra eccessiva...
Infatti, a mio avviso, non è per questo che il giovane pastore viene punito, ma per il fatto di non aver riconosciuto e onorato la “Dea dei boschi e delle rocce”, colei che può elargire l’abbondanza e la può negare. Del resto, come si fa a scambiare una Vivana per una Bregostana? Bisogna proprio esser ciechi, o sciocchi... 

Allo stesso modo il Paster petschen del canto grigionese viene punito non tanto per aver scoperto la “femminilità” dell’essere che si nascondeva sotto le vesti del mandriano, ma per non averne riconosciuto la “divinità”: rifiutando i doni prodigiosi della Dea egli si dimostra cieco e sciocco quanto il collega fassano.

Forse non è del tutto accidentale il fatto che la Dea, prima del compimento del suo tempo (sette anni meno 15 giorni), riveli al pastorello la sua vera natura, mostrando “il suo bel seno bianco”: non è forse questo il simbolo della vita e della fecondità? Forse allora davvero l’immagine scabrosa delle Tre Sante Vergini di Maranza, quella con la figura centrale a seno scoperto e braccia aperte, non rappresenta affatto un martirio, bensì una vera e propria “teofania” femminile...

FREYJA
La conseguenza per questo mancato riconoscimento è terribile: in entrambi i casi l’abbandono del mondo umano da parte della divinità benefica comporta sterilità, fame, carestia e desolazione.

A questo punto i dettagli diventano importanti. In una delle versioni fassane la Vivana torna insieme a due compagne: si forma quindi una TRIADE di entità femminili, le quali prima di annunciare il castigo salgono su un’altura e cantano il loro lamento:

“se jent saessa chi noi sion
che ton, aur, amor te man aon
scaré col cian no fossaron”



Già. «Se gli uomini sapessero chi noi siamo, se sapessero che abbiamo il potere di donare salute, ricchezza e amore, non saremmo scacciate col cane». Così cantano le Vivane... http://www.youtube.com/watch?v=6l_Mm_vALcA&feature=em-upload_owner

(De Rossi, Fiabe e leggende della Val di Fassa, 1984, p. 154 e segg. Per inciso: da qui si diparte il fil rouge che attraversa per intero il romanzo iterando il motivo dei “doni delle vivane”. Uno sviluppo letterario del tema compare anche in uno dei Fragmenta, il n. 9, intitolato “Lament”. Vedi anche il Post di settembre: “La voce delle Vivane”) 

Anche “Sontga Margriata” dopo aver punito con la morte il pastorello canta dall’alto di un poggio il suo addio al mondo umano (ed anche questo è un dettaglio che accomuna le due leggende). È un canto triste e dolcissimo, pieno di vezzeggiativi e di espressioni affettuose che sembrano voler attenuare le conseguenze devastanti dell’atto fatale per l’equilibrio dell’alpeggio: “O ti funtaunetta... o ti plaunchetta... ah, mia buna jarva...”. Cose e animali a loro volta piangono disperatamente il commiato della Dea, la quale evidentemente non se ne va dall’alpe per dispetto, ma ne è allontanata dalla superbia e dalla cecità umana: come nella leggenda fassana.

Già il vescovo Christian Caminada ipotizzava che sotto le vesti di questa improbabile “Santa Margherita” si nascondesse la dea germanica Freyja, dea dell’amore e della fertilità. Più recentemente Karen P. Smith (citata nel Post precedente) spiega come la figura della Santa Vergine e Martire di Antiochia (la cui esistenza storica è fortemente discutibile) possa essere interpretata come il risultato di una sovrapposizione di elementi di diversa origine: l’associazione con il Drago la avvicinerebbe alla figura della “donna-serpente”, entità liminare mediatrice tra il mondo umano e quello ultraterreno (come Melusina), mentre l’attributo di protettrice delle partorienti (cosa strana per una vergine) la qualificherebbe come dea della fecondità e del ciclo vita-morte: così nella cantica grigionese essa ha il potere di generare la vita dalla terra, ma al tempo stesso produce il ritorno di un essere vivente nel grembo della terra. 

Ma non basta: anche Santa Margherita si fa in TRE, proprio come la Vivana della leggenda fassana. Nel Medioevo, osserva Karen Smith, Margherita è spesso parte di una TRIADE insieme con Barbara e Caterina, e talvolta al posto di Barbara troviamo Giuliana o Dorotea
Ecco dunque ancora una volta le “nostre” Sante Vergini che giocano a “Tria mulinello” (v. IMMAGINI, n. 7), epifania variabile della Dea triforme. Le conosciamo bene, noi che con Peter Stauber indaghiamo i “Misteri del Cjaslir”: manca solo Sant’Orsola...